Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Non è un caso che la stessa pistola impugnata dal padre di Moebius sia quella con cui Kim Ki-Duk cercava la morte e la catarsi in Arirang, e se non è la stessa è molto simile. La pistola, portatrice di violenza. Kim Ki-Duk la punta contro di noi, alle prese con una di quelle pellicole che, dopo Arirang, avrebbe realizzato a prescindere dal pubblico, solo per sé, come Amen, film così poco conosciuto da far credere l'estetica semi-amatoriale di Moebius qualcosa di nuovo per il regista. Moebius arriva invece necessario, contrapposto tematicamente ai Kim che abbiamo finora conosciuto ma perfettamente coerente con un processo estetico che ha portato il regista coreano dall'osservazione degli istinti, alla loro abolizione con lo spiritualismo, fino al nuovo ingombro della carne, che in Moebius si strazia, si umilia, si rigenera.
Tra i film più dolorosi che possa mai capitare di vedere a uno spettatore, capace di far avvertire il dolore fisico ed esistenziale sulla pelle e nell'anima, in maniera talmente eversiva da invasarci completamente, il 20esimo film di Kim Ki-Duk è il ritratto di un mondo post-apocalittico, in cui non sono stati il sesso e l'istinto sessuale ad avere ridotto l'umanità a un insieme di solitudini silenziose prive ormai di ponti per comunicare reciprocamente (se non attraverso un cellulare), ma ancora capaci di pulsare in maniera meccanica nella loro duttile e carnale presenza sulla Terra; il colpevole della degenerazione umana è la ripetizione, il dare per scontato civiltà, famiglia, amore, maternità e/o paternità, fino ad eliminarli dalle proprie prerogative, ormai fin troppo conosciute per essere fonte di appagamento, ancora prima che di felicità. Appagamento carnale, appagamento esistenziale. Non sono più gli uomini bestiali ad essere privati del volto, ora ad essere privo di volto è l'uomo che crede in qualcos'altro, che si inginocchia di fronte a una statua votiva che in case borghesi asettiche e ingiallite nasconde un coltello arma della rabbia. Il fatto che tutto inizi dalla castrazione perpetuata dalla madre al figlio non è sinonimo di misoginia, come forse si poteva pensare (assai superficialmente) per il von trieriano Antichrist, anzi, qui la causa fondante è il tradimento del marito/padre, tanto da far credere, alla fine, che sia la madre l'unica a credere veramente ancora nei rapporti familiari, e per questo si è spinta alla loro distruzione. Colta da una follia istantanea, non riuscendo a castrare il marito, elimina il fallo del figlio, in un'esplosione di odio sessuofobico che è masochismo e (auto)distruzione. L'essere umano, in Moebius, è condotto da soli questi due motori, la sessualità e la violenza, che nel gesto della madre trovano emblematica rappresentazione.
Accumulando sempre concetti e situazioni, assai coinvolgenti benché si tratti di un film completamente non parlato, Moebius passa attraverso la ricerca di un sostituto al fallo, attraverso l'indagine di un padre che si applica per restituire al figlio la possibilità dell'unico appagamento che ormai è possibile sulla Terra di Kim Ki-Duk, l'amplesso, dimensione altra che fa dimenticare la realtà alla stregua di un sogno cinematografico qui azzerato ma un tempo efficace (Ferro 3). All'uomo non resta altro che l'amplesso, e quando gli viene privato il sesso, utilizza la violenza. Da qui la scoperta, fondamentale per il film, ancora più che del taglio del pene, che il dolore possa provocare piacere. E' dolore fisico, piacere fisico, ma è vero piacere, e non semplicemente non-dolore. Un piacere intenso ma breve, com'è l'orgasmo dell'essere umano, eppure capace di farci scordare delle nostre determinazioni, che in Moebius sono ingombranti ma invalicabili: l'infinito si è perduto, ormai si pesa il triplo della propria massa su un'ipotetica bilancia. E nonostante lo spettatore riesca ad affezionarsi a personaggi che non fanno altro che osservare e osservarsi in un mondo piatto e privo di stimoli, l'identità finisce per essere data da un semplice corpo, da un semplice sesso, che distingue l'uomo, che troverà appagamento nel proprio piacere, e la donna, che per appagarsi dovrà utilizzare l'uomo. Il sesso reca identità, non è osservato negativamente come fonte di sofferenza, ma come unica fonte di vitalità. Ecco cos'è che rende Moebius un film mostruosamente originale, innovativo, lodevole. La creazione, ad opera di una donna, di un fallo-coltello, che si possa stimolare in un appagante abbraccio fra due identità parallele e dunque incapaci di incontrarsi, eppure molto vicine, quasi capaci di baciarsi, ma separate da un corpo che è nella tensione dell'amplesso. L'abbraccio di Ferro 3 si appesantisce, si ingrigisce, forse non perde la speranza ma perde la leggadria, l'incantevole inconsistenza.
Lontanissimo da Pietà, che nel rapporto madre e figlio e in tutte le sue implicazioni voleva trovare la giustificazione per un lirismo monco e incoerente e per una trama zoppa e inverosimile nonostante le pretese realistiche, Moebius illumina il Kim razionale, che ha accumulato così tanto cinema prima di ora (un po' come i suoi protagonisti hanno accumulato fin troppi stereotipi civilizzanti) da reinterpretare adesso la carnalità e arrivare pericolosamente a renderla salvifica, contro una violenza che, come diceva Peckinpah, è sintesi di tutti i rapporti umani, ma che nel frattempo si fa addirittura alternativa "sensuale" ma "grezza" di un battito del cuore disperso nell'ombra della propria finitezza, della propria dispersione civile, delle proprie laiche e profane illusioni, che crollano di fronte a un sorriso che si può finalmente stampare davanti a un idolo votivo illuminato da una torcia.
Difficile, ostico, straordinario, Moebius o lo si ama o lo si odia. Ma in ogni caso è impossibile non mettere in gioco sé stessi completamente, è impossibile non sentire lo sfregolìo di quelle pietre del piacere sulla propria pelle, è impossibile restare freddi. Sincero fino all'inverosimiglianza.
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