Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Un film fallocentrico: la perdita del pene, l’invidia del pene, il trapianto del pene, l’autonomia erotica del pene... Kim Ki Duk è sulla cresta dell’onda, sorattutto in Occidente, e sa che in questo momento può fare praticamente tutto quello che vuole. Naturalmente non ci si deve avvicinare a Moebius impreparati ovvero con aspettative canoniche in termini di dialoghi, di recitazione, di verosimiglianza della trama o di sfumature che caratterizzino psicologicamente i personaggi: bastano i primi 10 silenziosi minuti per capire che siamo dalle parti dell’assurdo e del grottesco e quindi prendere o lasciare. Supponendo di prendere bisogna farlo in termini di provocazione, di sfida, insomma stare al gioco ed essere pronti a tutto. In quest’ottica bisogna riconoscere che alcuni spunti sono interessanti (anche se non nuovissimi), come ad esempio l’indagine sulla contiguità sensoriale tra piacere e dolore che può produrre, nelle pratiche masochistiche, forme alternative di appagamento fisico. Anche l’idea che una parte del corpo, una volta trapiantata, possa conservare una sorta di memoria della sua vita precedente e quindi una sua libertà di azione, per quanto grottesca e azzardata richiama, all’estremo, una concezione olistica della relazione tra mente e corpo che può essere approfondita. E nonostante tutto, paradossalmente, io non ho trovato Moebius veramente scandaloso, non perchè manchi di temi scabrosi e violenti anzi è praticamente un campionario di storture comportamentali, ma perchè fin dall’inizio il contesto è talmente straniante da essere irreale. In alcuni momenti del film ho pensato che nella scena successiva sarebbe potuta accadere qualunque cosa, magari con i personaggi scambiati di ruolo, ormai avrei registrato tutto senza battere ciglio. La stessa direzione degli attori prevede – intenzionalmente - interpretazioni quasi meccaniche di personaggi senza identità psicologica che sembrano eseguire delle istruzioni di movimento: in tal modo impedisce l’immedesimazione scongiurando possibili reazioni di totale rifiuto (solo in patria KKD è stato bacchettato). Fortunatamente la chiave di lettura arriva nell’ammiccante scena finale, che strizza l’occhio allo spettatore come per cercare complicità, o indulgenza, per quanto visto fino a quel momento: tranquilli non si faceva sul serio. Che dire dunque? Va bene, accetto la provocazione, ma la mia personale ricerca al cinema prosegue oltre.
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