Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film
Ho visto questo film tanti, tanti anni fa, quando ancora pensavo che il neorealismo fosse solo una questione di "far vedere la realtà così com'è, con riprese in esterni, attori non professionisti eccetera" (come, d'altra parte, ancora oggi certa "critica" fraintende) e non sapevo che la rivoluzione rosselliniana sarebbe stata ben più intima e profonda di quella indotta da qualche facile accorgimento stilistico. Già allora mi parve un grande film, di straordinaria forza e durezza drammatica. Preminger ha detto che esistono due Storie del cinema: una prima ed una dopo "Roma Città Aperta". Film spartiacque dunque, per la Settima Arte, come lo furono gli impressionisti per la pittura, i Ramones per la musica rock, Miles Davis per il jazz e via dicendo...L'inizio del cinema moderno. Ma mica tutti sono d'accordo! O meglio: al neorealismo viene comunemente attribuità la paternità (non cercata, ma spontanea) di una idea "moderna" di cinematografo. Ma in verità, sono in molti a considerare "Roma Città Aperta" un'opera di passaggio, un compromesso dal vecchio al nuovo, laddove il successivo "Paisà" sarebbe stato più puro, libero dalle pastoie del cinema classico/fascista. I detrattori (si fa per dire) evidenziano la presenza fra i protagonisti di due star dell'epoca, Anna Magnani e Aldo Fabrizi, e lamentano una certa artificiosità della vicenda. Ho rivisto di recente questo film, per vedere come è invecchiato. La mia risposta è: cari detrattori, "Paisà" sarà pure più puro, ma "Roma Città Aperta" è già, a pieno titolo, un film rivoluzionario, di quelli che segnano una netta cesura col passato, che riscrivono letteralmente una nuova grammatica filmica. Aveva ragione il buon Otto Preminger, allora. Nel raccontare il dramma dell'Italia occupata, angoscie e speranze di una Resistenza difficile ma necessaria, Rossellini inventa di sana pianta una nuova drammaturgia, "naturalizza" il concetto di tempo, ridefinisce il rapporto fra la figura umana e lo spazio circostante, scardina le gerarchie di peso ed importanza fra i vari personaggi ed eventi, imbastisce una affresco di vite e sogni infranti su un ritmo tanto più espressivo ed introspettivo quanto più appare lasco allo spettatore abituato ai tempi rigorosi di Hollywood, all'enfasi del "realismo socialista", alle distorsioni espressioniste. Forse solo il "realismo poetico" degli anni 30 (Renoir e compagni francesi) può essere considerato un possibile referente per il neorealismo italiano (e lo è stato certamente per il primo Visconti...anche se io sono dell'idea che i vari Renoir e Vigo abbiano influenzato il modernismo più sul fronte "nouvelle vague" che su quello italiano, almeno idealmente), come indubbiamente Chaplin ha influenzato De Sica e anche De Santis aveva i suoi bei modelli sovietici e statunitensi...ma Rossellini no: era un'altra cosa. Era un cinema che nasceva dal nulla, o meglio: nasceva dall vita stessa. Rossellini dava importanza al gesto, al movimento delle persone inserite in uno spazio-tempo in cui la vita di gente comune, nelle sue imprevedibili sfaccettature, poteva manifestarsi in tutta la sua complessità ed intensità. Il fertile paradosso di Rossellini, definito poeticamente sin da "Roma Città Aperta", è proprio questo: tanto più i tempi drammaturgici si allentavano e tanto più pareva esserci spazio per il superfluo, per il casuale, per l'episodico, tanto più potente risultava la rappresentazione di un'emozione del tutto umana. Con Rossellini, il cinema smette di essere una sinfonia dalla struttura scientificamente trascinante, e diventa un mezzo di osservazione di una realtà non tanto dei "fatti", quanto dei "sentimenti". E' qui, a mio parere, il primo vagito del cosiddetto cinema contemplativo: con "Roma Città Aperta" ne nasce il concetto. Ciò ovviamente non significa affatto che Rossellini si perda in futili divagazioni sull'umore dei personaggi: lo sguardo resta sempre teso verso la tragica contingenza bellica, e l'approccio è rigorosamente morale. Inquadrature neutre e una sobrietà di direzione degli interpreti impediscono tuttavia qualsiasi deriva retorica, negando con forza la figura tipica dell'eroe e riconducendola ad una dimensione umana, quotidiana. Così come non si deve credere che Rossellini adotti uno stile freddo, distaccato. Un conto è la drammatizzazione, un'altro conto è l'empatia. La posizione di Rossellini è chiara; il fatto è che gli bastano un paio di banali inquadrature per definire l'affetto che prova verso un personaggio (come la buffa e tenera scena in cui il prete riceve una bella pallonata in testa). Un cinema di ellissi, reticenze, pause, silenzi, esitazioni, ma non per ingannare lo spettatore, nè per architettare la suspence: semplicemente perchè così si presenta la vita ai nostri occhi. Il fatto che "Roma Città Aperta" sia il primo film sonoro definibile come "moderno" non significa quindi che sia un anti-dramma a-morale a-critico (e metteteci tutte le negazioni che volete!). Nel naufragio delle esistenze, in balia del mostro bellico-nazista, c'è spazio anche per una, anzi due scene madri. La migliore sta al centro del film ed uccide nientemeno che la star, l'immensa Anna Magnani, elidendo con crudezza ogni possibile strascico: la vita continua anche senza Pina, c'è una guerra da vincere e un Paese da liberare. Si tratta di uno dei momenti più alti di tutta la Storia dell'arte novecentesca: caos, spaesamento, mescolanza di toni, vite dal diverso destino che si sfiorano, tutta la cattiveria del genere umano stipata in quello shockante sparo anonimo, in soggettiva...pare quasi che sia il pubblico stesso a "giustiziare" Pina, nonostante il suo grido d'aiuto. Da brividi. E poi la fine di Don Pietro, altro capolavoro di messinscena anti-classica. L'estetica dell'indifferenza, della sbrigatività: il confessore non fa nemmeno in tempo a finire la sua benedizione, prima che il plotone esegua il suo compito. Don Pietro muore, dopo qualche illusorio secondo di inattesa sopravvivenza, ma perisce solo il suo corpo: la sua anima e il suo esempio sopravvivono nei ragazzi della sua parrocchia, su cui si chiude il film. Insomma, niente male per un'opera "di passaggio"...
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