Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film
Il film è stato girato nel 1945 ed ha un ruolo fondamentale nel definire l’estetica neorealista, superando le grandi problemi materiali, quali la difficoltà di reperire adeguati finanziamenti e quindi la possibilità di scritturare attori, la inagibilità dei teatri di posa, la penuria di attrezzature e materiali (fra i quali anche la pellicola) ai quali vanno aggiunte anche le disparità di vedute politiche fra gli autori della sceneggiatura, pur essendo tutti antifascisti. Facendo di necessità virtù, Rossellini sfrutta le carenze materiali per un cinema di rottura con il passato, in netta opposizione con le garbate futilità del cinema dei “telefoni bianchi” (di registi quali M. Carmerini, A. Blasetti, M. Mattoli, A.G. Bragaglia e altri) o le retoriche esaltazioni di propaganda romano/patriottiche del cinema di ispirazione fascista (come Scipione l’Africano di Carmine Gallone), realizzando un film che esprime con franchezza la tragica realtà dell’Italia devastata dalla guerra e vessata dai nazifascisti.
L’intento è quello di rievocare l’attività della resistenza romana all’occupazione nazista, duramente contrastata dalle SS della Gestapo. L’azione, pur svolgendosi nel marzo del 1944, ma non fa diretto riferimento al contemporaneo attentato di Via Rasella e al conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine che rimangon o come immanenti, a causa delle divergenze politiche, non solo degli autori, sulla valutazione dell’attentato.
La narrazione si sviluppa seguendo le vicende di un alto esponente della resistenza, il sedicente ing. Manfredi (interpretato da un credibile anche se un po’ legnoso Marcello Pagliero) il quale intrattiene una relazione con la sventata attricetta Marina (Maria Michi), in realtà manovrata dall’agente nazista Ingrid (Giovanna Galletti) con la quale sembra insinuarsi che avesse un rapporto lesbico e che sfrutta la sua tossicodipendenza; Manfredi trova rifugio presso la popolana Pina (la grande Anna Magnani in una delle sue migliori e più celebri interpretazioni) e il fidanzato Francesco (Francesco Grandjacquet) . I partigiani sono attivamente aiutati da don Pietro (splendidamente interpretato con misura e umanità da Aldo Fabrizi) anch’egli aderente alla resistenza e la cui figura adombra quella reale dei religiosi don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo fucilati dai nazifascisti. La controparte nazista, intenta a reprimere con tutti i mezzi la resistenza, è impersonata dal capo della Gestapo, il maggiore Bergmann (un sussiegoso e cinico Henry Feist).
La crudele determinazione a eliminare la resistenza da parte delle SS ha ricevuto particolare risalto con le scene della tortura dei prigionieri nella sede della Gestapo di via Tasso: per me queste scene hanno un particolare valore perché collegano la descrizione cinematografica alla realtà storica, infatti le ho sempre associate a quanto raccontavano i miei genitori, che allora abitavano non lontano da via Tasso: loro, come tutti, evitavano di passare nei dintorni di quella via per non udire le strazianti urla dei torturati.
Quelli che potrebbero essere punti deboli del film, a prescindere dalle carenze tecniche per le difficoltà materiali, sono una certa frammentarietà della trama, finalizzata più su singoli episodi che su uno sviluppo coerente e consequenziale, una certa oscillazione di registro dal drammatico/tragico alla commedia (anche nello stesso episodio, come la padellata di don Pietro all’anziano infermo durante il rastrellamento) e l’affiorare di un certo didascalismo (come lo sfogo dell’ufficiale ubriaco contro le efferatezze delle SS che sembra avere più lo scopo di tenere separata la deviante ideologia nazista dall’indole del popolo tedesco che una necessità narrativa). Per quanto riguarda la trama forse un po’ slegata, questo dipende, però, anche dalle scelte del regista per il quale sono i fatti stessi che danno una svolta alla storia per il loro avvenire e imprimono un senso alla narrazione, per cui la reazione dei personaggi agli eventi permette di caratterizzare la loro personalità, cioè è preferito un punto di vista “dal basso” rispetto ad un preorganizzato svolgimento della trama.
Nonostante le sue imperfezioni “Roma città aperta” rimane comunque uno dei capisaldi delle cinematografia italiana (e non solo) sia per la costituzione dell’estetica neorealista che per aver raccontato la verità storica per mezzo dell’umanità dei personaggi.
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