Regia di Abel Ferrara vedi scheda film
L’Abel Ferrara degli ultimi anni è un oggetto indecifrabile. Dopo aver realizzato alcuni film fondamentali negli anni 80 e 90, chiudendo la sua prima parte di carriera con il pungente e paradigmatico “Il nostro Natale”, ha cercato fondi ed ispirazione lontano da Hollywood, imbarcandosi in progetti assai eterogenei. Fra l’ambizioso e denso “4.44 Last Day On Heart” e le desolanti secche di “Pasolini”, c’è spazio anche per questo anomalo biopic su una figura che un paio d’anni fa dominò le prime pagine dei giornali, suscitando il solito vespaio di opinioni: il ricco e potente Strauss-Kahn, accusato di violenza sessuale ai danni di una cameriera. Ovviamente, Ferrara si prende le sue libertà nell’elaborare il copione, ma neanche tante, per la verità. Anzi, il film sorprende proprio per questo suo didascalismo, che caratterizza almeno tutta la prima parte. Viene presentato il personaggio (ottimamente reso da Depardieu, in tutto il suo mix di volgarità, prepotenza ed incontinenza sessuale; ringhiante come una bestia in calore), le sue orge (i primi 20 minuti paiono un soft-core), il momento della presunta molestia (con puntuale ellisse narrativa, che lascia il dubbio fino alla fine) e tutta la trafila giudiziaria: arresto, processo, appello etc…Sembra quasi che Ferrara abbia voluto predisporre le condizioni per la rappresentazione di una sorta di calvario, di una discesa agli inferi, di una caduta degli dei: purtroppo però lo stile volutamente sciatto di questa parte non permette l’emersione di interessanti chiavi di lettura. Quando entra in scena la moglie del protagonista (una convincente J.Bisset), cinica ed arrivista, con tutti i suoi scheletri nell’armadio, la vicenda comincia ad assumere risvolti tematici significativi: si evincono tutti i limiti caratteriali e le fragilità di Devereaux, a fronte di una moglie manipolatrice, che biasima il comportamento del marito non certo per disgusto o per qualche istanza femminista (figuriamoci!), ma solamente perché così facendo ha compromesso la sua carriera politica. Nell’ultima parte il discorso sulla “sex addiction” (tema caro al regista) lascia il posto ad una riflessione, in forma saggistica e condotta sulla scorta di uno straniamento più vicino però al loquace Cassavetes che a Brecht, sul Potere (del denaro soprattutto) e su come questo corrompa i più nobili ideali e impedisca ogni possibilità di redenzione (altro tema ferrariano, il cristianesimo tormentato). E’ un Ferrara amaro, disilluso, dolente quello che emerge, forse con un surplus di retorica (il monologo di Devereaux che prende il largo da una seduta psichiatrica), dalla visione di questo film. Non è il naufragio del recente “Pasolini”, ma anche questo “Welcome to NY” (titolo inconcepibile: che significa? è ironico?) non convince appieno, spesso annoiando; non esalta per qualche invenzione visiva, non inventa forme; non sa elaborare un discorso lucido e complesso sui mali dell’Uomo e della società contemporanea. Funziona ad intermittenza. La sufficienza c’è, ma da Ferrara (e da uno spunto del genere) ci si aspetta almeno un 8.
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