Regia di Abel Ferrara vedi scheda film
Devereaux, capo del Fondo monetario internazionale, viene accusato di avere sessualmente abusato di una cameriera in un hotel di New York, e per questo messo in prigione. Comincia per lui un calvario che coinvolge la moglie americana Simone, e che non prevede redenzione. Il film della discordia, almeno in Francia, dove sia Dominique Strauss-Kahn, per gli amici DSK, alle cui peripezie erotico-giudiziarie il racconto si ispira, sia la moglie Anne Sinclair hanno già querelato Abel Ferrara e il produttore Vincent Maraval. Si gioca la carta dello straniamento. All’inizio Gérard Depardieu, per gli amici Gégé, in una finta intervista dice di avere accettato il ruolo perché detesta quel tipo di personaggio, ma il film appare un po’ anche su di lui, sempre più disfatto e animalesco. «Regole: qui dentro è la parola chiave» dice il secondino a Devereaux mentre gli prende le impronte digitali, in gabbia. E lui lascia fare, come se la volontà fosse annientata da “istruzioni” che nella vita sociale non ha mai dovuto seguire. Volere/potere: di questo parla Welcome to New York, e di un sacco di altre cose connesse, a volte con simbologie fino alla nausea ritornanti (i soldi, il sesso, tra grugniti e altri soldi), solcando corridoi, marciapiedi e stanze sempre più buie. Il film è affascinante, anche irritante. Ferrara non ha il senso del limite (esagerate due ore, infarcite di iterazioni a volte inutili): non riconoscerlo significa fare un torto alla sua storia di cineasta glorioso.
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