Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
È un’opera antologica Allacciate le cinture. Perché se è vero che un autore gira sempre lo stesso film, il nostro regista più “apolide” (come la città di Lecce in cui gira, popolata da non pugliesi) si supera condensando in 110 minuti tutto ciò che lo ha reso famoso e riconoscibile da un pubblico assuefatto al suo melodramma sontuoso e rassicurante. E non è certo un caso che dietro la macchina da scrivere sia tornato Gianni Romoli, che aveva condiviso tutta la carriera di Özpetek fino a Saturno contro, a cui si riallaccia grazie al tema della malattia e della morte. Il problema è che ora la messa in scena sembra un medley con le singole parti del discorso amoroso dei due protagonisti (Kasia Smutniak e Francesco Arca, sul quale è meglio stendere un pietoso velo) che aspirano a costruire un’intera esistenza attraverso la coralità dei personaggi alla maniera di Özpetek. Che non rinuncia mai a mostrarsi con i suoi imponenti pianisequenza, le sottolineate soluzioni formali con le riprese ad altezza bambino mentre in campo ci sono anche i genitori dimezzati, l’inserimento così accattivante dei suoni, della musica e delle canzoni. Peccato che il tutto tenda a ridursi a un certo macchiettismo slegato dalla realtà. Con personaggi per cui si fatica sempre a sospendere l’incredulità (Kasia Smutniak figlia di Carla Signoris) e con espressioni che non verrebbero perdonate a nessun altro («È solo un pezzo di carne», «Crede di avercelo solo lui», «Macho checca»…).
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