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Allacciate le cinture

Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film

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La recensione su Allacciate le cinture

di alan smithee
4 stelle

"Allacciate le cinture: turbolenza in arrivo": il cinema di Ozpetek mira da sempre (con una certa calcolata scaltrezza commerciale) a  far breccia sui sentimenti più istintivi, ingovernabili ed epidermici del suo pubblico affezionato. Ed in genere se la cava egregiamente, soprattutto quando racconta le sue storie passionali, i suoi amori impossibili che un destino beffardo ma anche calcolatore rende realizzabili dopo aver giocato a rimpiattino con le sorti dei suoi tormentati personaggi. E ama molto stemperare i suoi drammi con figure secondarie o macchiette divertenti (nell'ambito della tragedia in agguato) che siano in grado di capovolgere, almeno per attimi ed istanti frizzatini, i cuori tormentati degli spettatori irretiti e appassionati dal suo racconto. Un giocoliere dei sentimenti, che ambisce a far piangere e poi ridere per poi tornare al dramma e alla storia d'amore impossibile in cui ognuno possa (e voglia) rispecchiarsi. Ozpetek ama le famiglie grandi e tumultuose, frutto di legami di sangue o di unioni di fatto che suppliscono egregiamente le prime; adora parlare di amicizie fondamentali e lunghe tutta una vita  (qui in particolare quella della protagonista con l'amico brillante e simpatico interpretato da Scicchitano, che ad inizio film ci viene mostrato con una capigliatura che sembra una delle tante parodie, qui peraltro involontariamente efficacissima, di un Matteo Renzi bambino ventenne) che legano all'infinito ben più che i sopraccennati vincoli consanguinei; le sue storie si rotolano e avviluppano su scherzi e giochi di un destino che si diverte a rimettere in discussione, tutt'altro che casualmente, episodi anche minimi del passato per condizionare, nel bene e nel male, il futuro dei suoi protagonisti.
Una coppia che inizia ad odiarsi nella splendida carrellata rasoterra iniziale, al riparo e stipata tra una piccola folla presso una fermata di bus, sotto una pioggia torrenziale che rende il pave' antico del centro storico leccese un fiume in piena di un grigio potente ed affascinante. La storia d'amore tra un grezzo meccanico statuario ed affascinante quanto ignorante e maleducato, e una intraprendente e dinamica barista con spiccati intuiti imprenditoriali nel settore ci può stare, e permette al regista di spaziare coralmente attorno alla famiglia di quest'ultima, che dribla i drammi del passato con una vivace ironia di cui sono depositarie principalmente madre e zia (Carla Signoris e Elena Sofia Ricci brave, ma anche un po' gigione quanto è lecito aspettarsi, sia nel bene che nel male). Purtroppo il film finisce per inciampare irrimediabilmente al sopraggiungere, improvviso e shoccante, della "turbolenza". Non che non sia lecito parlare di malattie gravi, di malati terminali che, pur consci dell'ineluttabilita' del male che li divora, affrontano con sfrontata ironia il tempo prezioso che resta loro per lottare. Il problema è riuscire ad amalgamare due registri che mirano, come accennato, troppo furbescamente ad attizzare le emozioni più epidermiche dello spettatore, che non sempre tuttavia cade nella trappola furba e tendenziosa e magari si ribella o prova comunque un fastidioso senso di imbarazzo quando la storia tenta anche di complicarsi con una congiunzione temporale che lega stoltamente e forzatamente gli amanti insicuri e clandestini alla loro prima fuga d'amore in spiaggia e poi, dieci anni più tardi, nell'ultima e medesima "spiaggia" i burrasca (sin tropo facile simbolismo) prima del ricovero senza appello. Kasia Smutniak appare sensibile e gradevole come sempre: un volto che attrae su di sé la cinepresa e rapisce a se' inquadrature sempre più ravvicinate. Francesco Arca riesce con una certa disinvoltura a passare dall'espressione "imbronciata" a quella "molto imbronciata" coltivata negli anni delle sue frequentazioni televisive scult da brivido. Ozpetek si sofferma adorante sul corpo di quest'ultimo, scolpito prima, e imbolsito dieci anni dopo (una notevole performance di mutamento fisico, bisogna dargliene atto seriamente), tra le pieghe di una muscolatura frastagliata di tatuaggi e scritte il cui nesso per fortuna ci viene risparmiato da una scrittura in corsivo che non riusciamo ad interpretare. Allacciate le cinture soffre dunque di troppi cambi di registro, di ammiccamenti furbi e prevedibili, se vogliamo sin disonesti, di siparietti anche gradevoli, ma non in grado di conferire una necessaria omogeneità ad una storia che finisce per sbandare senza rimedio. Ed è un vero peccato perché sino ad ora il pur bravo regista ha sbagliato solo adattanndo (malissimo, vedasi il disastro di "Un giorno perfetto") opere altrui, ma mai seguendo i propri istinti e le proprie storie corali e colorate.

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