Regia di Edgar Reitz vedi scheda film
Il "prequel" del primo Heimat: gli antenati di Paul Simon e degli altri personaggi della prima serie ambientata alcuni decenni dopo. Opera fluviale e solenne.
Ho visto altre cose di Reiz, e le ho trovato discrete o buone in qualche caso. Ma solo con i vari "Heimat" il regista ha raggiunto l'eccellenza, poiché la tematica è evidentemente la sua vocazione.
Infatti questo tardo "Heimat" si può definire senza troppi problemi un capolavoro: fluido, armonico, in perfetto equilibrio tra il sociale e il privato (come i precendenti), con una bellissima fotografia in bianco e nero (con piccole, geniali digressioni nel colore). Forse, rispetto agli altri, mi pare più amarognolo: non è esattamente pessimista, ma il ritratto del piccolo mondo di Schabach questa volta mi sembra più sconsolato e tagliente. Non a caso si parla di emigrazione e di voglia di fuga più che nel primo Heimat, ad esempio. Anzi, il desiderio di scappare lontano dal luogo natio, e la difficoltà per realizzarlo, è forse il tema conduttore del film. Alla fine arriva una ventata di speranza, ma gli interrogativi sulla positività dell'emigrazione rimangono. E' infatti innegabile una certa mitizzazione ed idealizzazione dei mondi oltreoceano, quasi che là non ci fossero i problemi e le fatiche della vita, ma anzi una specie di paradiso. In fin dei conti a Schabach non si muore di fame; si lavora sodo ma si tira avanti. Forse, quindi, il desiderio di fuga è alimentato più da un'insoddisfazione verso la vita stessa, o da una noia strisciante, che dalle reali condizioni economiche degli abitanti. E che ne sarà di tante vite sradicate e trapiantate? Lascia anche il segno la notizia che durante il viaggio verso il Brasile una parte degli emigranti muoiono di malattie o di fame; infatti il comandante della nave non distribuisce equamente le razioni alimentari. Insomma, l'egoismo, la fame e la morte ci sono dappertutto.
Come nei precedenti episodi, il regista rinuncia ad uno sguardo morale sui suoi personaggi, che pure definisce con precisione (benché molto lentamente e a modo suo). Nessuno è più bravo o peggiore degli altri, e tutti sono capaci, in momenti diversi, di gesti di bontà o di cattiveria. Questo sguardo imparziale e non giudicante ha tutto il suo spessore e il suo valore, perché non coincide affatto col qualunquismo, senza nulla togliere ad impostazioni diverse di tanti altri film. Ne esce il ritratto corale di un piccolo universo, dove ognuno è un tassello del mosaico, dove tutti sono collegati tra loro, e dove anche la figura del protagonista si stempera sempre più a favore della comunità.
Unica smagliatura del film è costituita secondo me da alcune incertezze nella caratterizzazione del ragazzo protagonista all'inizio della pellicola. In certe occasioni risulta apatico e indifferente davanti a situazioni che dovrebbero almento metterlo in subbuglio sotto qualche aspetto, come il padre che lo caccia di casa col forcone e la soldataglia lungo il fiume che gli spara e lo colpisce di striscio. La sua imperturbabilità fa pensare al senso di superiorità che hanno certi ribelli. Nel prosieguo del film, tuttavia, egli mostrerà un modo di reagire normale e consequenziale, o persino una certa ipersensibilità, come nel caso del vecchio viaggiatore in carrozza (Werner Herzog) che è venuto a cercarlo.
In ogni caso sono difetti minimi e trascurabili, in un'opera che ci riempie di riverenza e che si impone per il capolavoro che è.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta