Regia di Domiziano Cristopharo, Giovanni Pianigiani, Bruno Di Marcello, Paolo Gaudio, Alessandro Giordani, Paolo Fazzini, Simone Barbetti, Giuliano Giacomelli, Matteo Corazza, Angelo Capasso, Giuseppe Capasso, Edo Tagliavini, Manuela Sica, Yumiko Sakura Itou, Ros vedi scheda film
Presenze al di là dello schermo, realtà indistinte, incubi ad occhi aperti, scene notturne, antefatti misteriosi: l’invisibilità che domina l’opera di Edgar Allan Poe diventa la materia di un progetto realizzato da quindici registi italiani. Tredici cortometraggi, liberamente ispirati ad altrettanti racconti o poesie dello scrittore inglese, ci ripropongono le sue visioni tanto inquietanti quanto parziali, determinate da una prigionia che è la multiforme metafora della nostra condizione di esseri deboli e fallibili. Le sue atmosfere claustrofobiche si traducono in ritagli di storie ambientate in spazi angusti e luoghi convenzionali (case, strade, cantine, saloni), che calano il terrore in una dimensione attuale e privata, quasi sempre solitaria. L’individuo ne è il tormentato portatore, come vittima del dolore oppure artefice del male, in ogni caso ostaggio di una inspiegabilità che nemmeno la morte riesce a risolvere. La soffusa liricità della fonte letteraria si dissolve qui nella concretezza, che vede come unico protagonista l’uomo, sofferente, sgomento, disperato, destinatario di enigmatici messaggi provenienti da dimensioni sconosciute, ed impossibilitato a toccare con mano la verità. Intanto il buio lo chiama, con le minacce o le lusinghe, distogliendo il suo raziocinio dalla luce della normalità. L’oscurantismo esoterico del romanzo ottocentesco si converte nella cattività mentale dell’epoca moderna, in cui il relativismo trasforma l’atto del fantasticare in una pratica strettamente personale, ineffabile ed indecifrabile dall’esterno, tramite la quale il pensiero si tramuta in una forma ossessiva di autosuggestione. Sembra questo il principale filo conduttore che lega i vari episodi del film, diversi per tecnica e registro narrativo, ma accomunati dalla stessa voglia di strappare, alla parola scritta, il velo delle divagazioni astratte, per farlo indossare al mondo di oggi: il dubbio smette allora di aleggiare nel magico etere delle ipotesi filosofiche, per posarsi sui corpi, e diventare il loro fosco abito di inquietudine. In P.O.E. si respira a pieni polmoni l’aria del cinema indipendente nostrano, in cui lo sperimentalismo si coniuga spesso e volentieri con una teatralità casalinga e minimalista, nella quale gli attori sono contemporaneamente interpreti e narratori, scenografia e colonna sonora. Tutto ciò che possiamo percepire si trova dentro, racchiuso in un inestricabile concentrato di gesti e sensazioni. È il nostro cuore, di carne e sangue, quello che batte all’interno di una macchina che gioca a scacchi. È la nostra coscienza che fa miagolare il cadavere di un gatto murato in un sotterraneo. Ed è la nostra anima che parla attraverso la voce fuori campo. Intorno a noi le pareti sono strette, e le stanze semivuote, ed è per questo che il rimbombo è forte.
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