Regia di Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Ugo Gregoretti vedi scheda film
Un film che tocca in maniera diretta e ingenua, e quindi particolarmente dolorosa, le pieghe più sensibili delle inquietudini del secondo dopoguerra: la ridefinizione del ruolo della donna (Illibatezza), la minaccia nucleare (Il mondo nuovo), la tensione fra tradizione cattolica e le spinte laiciste della modernizzazione (La ricotta), la pressione consumistica sovrapposta ad una cultura di stampo rurale (Il pollo ruspante). Nei tre episodi a firma italiana emerge lo spirito esitante di una nazione che, provenendo dalla confortante semplicità della campagna, si ritrova impreparata di fronte ai primi sintomi della globalizzazione. Il grande mondo è quello della donna libera e piacente, dell'attore come operaio dell'industria internazionale dello spettacolo, della famiglia come oggetto di sfruttamento economico. Nessuno dei soggetti coinvolti appare più come un depositario di valori ed un punto di riferimento, posto al servizio della società. Ognuno di essi appare invece come il veicolo di un commercio in senso lato, come il fruitore temporaneo di un bene il cui destinatario finale è, in realtà, situato altrove. La bellezza, il divertimento, il cibo non sono più elementi della felicità individuale, ma sono prodotti intermedi di una transazione, che tanto dà e tanto toglie. Fa eccezione l'episodio realizzato da Godard, che si presenta come un tentativo (forse non del tutto riuscito) di conciliare il proprio stile, intinto nella rarefatta aura della borghesia metropolitana, con una visione grottesca che scaturisce da timori sconosciuti e sommersi, vagamente riconducibili alla paura di un cambiamento totale e repentino. Anche il segmento rosselliniano, in fondo, si configura come un esperimento, come un'apertura al nuovo, in cui la storia non segue più i ritmi pacati della crescita e della maturazione, bensì subisce le accelerazioni impresse dal progresso tecnologico ed economico, che abbrevia i tempi e accorcia le distanze. In conclusione, "Laviamoci il cervello" è un'esortazione che i quattro registi rivolgono in primo luogo a se stessi, mentre riflettono sulla necessità di sposare i propri gusti artistici con le esigenze di un mondo che, proponendo nuovi modelli ed imponendo nuovi desideri, bussa, sempre più insistentemente, alle porte del cinema d'autore.
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