Regia di Mirko Locatelli vedi scheda film
Occupare gli spazi non con persone, ma con sentimenti, oppressioni, disperazioni, estraneità, passettini di avvicinamento destinati ad inciampare nella incapacità di articolare parole, di organizzare un tentativo di esperanto tra stranieri, l’uno all’altro. Missione non semplice, quella di Mirko Locatelli, tuttavia riuscita con buona tenuta. Un proscenio asfittico quale può essere quello di un ospedale, un abitacolo di macchina che rimanda, nella immobilità coatta del protagonista, i notiziari sul traffico (unica concessione all’altrove, minima rappresentazione di uno spazio in qualche modo aperto), gli incontri con il/i diversi, le lingue, le abitudini, il colore della pelle, il telefono cellulare che è caldo rifugio familiare, desco delle cose note, orizzonte di normalità che ci si è, intanto, lasciati alle spalle. Il tutto mentre infuria la tempesta del dramma, la cupa prospettiva di un futuro di dolore: un padre, un figlioletto malato, le altre storie che si incrociano, si toccano, mai giungono a fondersi.
Facile cadere nella rete dell’espressionismo ricattatorio, infondere la tenerezza in dosi massive, calcare la mano sugli aspetti più chetamente truci di quel razzismo che non è figlio di alcuna elaborazione paraculturale, semplicemente esiste come schermo alla paura, alla poca possibilità di comprendere, mera maschera di cerone di un’ignoranza che è, letteralmente, il non (poter) capire, portato di un rifiuto che significa, anche e soprattutto, inconscia e latente consapevolezza della propria inadeguata capacità di stare al mondo, e nel mondo, con i suoi abitanti, tutti. E invece non accade. Film di corpi estranei, dunque, come pianamente suggerisce il titolo: un tumore che mina un cucciolo d’uomo, il padre italiano, estraneo ai colleghi di dolore tunisini e romeni, questi ultimi, estranei al papà salito dall’Umbria. C’è una scena paradigmatica: il personaggio di Filippo Timi si esprime in umbro marcato, rude, spessamente didascalico, l’altro (il ragazzo del Sud del mondo) gli dice di non aver capito. Non c’è lingua comune, nemmeno quella del dolore, benchè, alla fine, una lacrima a rigare un volto dirà molto sulla occasione persa: giungere a quella comunanza che avrebbe potuto essere condivisione di una tranche di vita e di sofferenza.
E poi ci sono i silenzi, gli imbarazzi che non si confessano nemmeno a se stessi, il porre le domande, le sole consentite in una istituzione chiusa quale può essere un ospedale. Il dolore che non riconosce quello dell’altro, perché, parafrasando Quasimodo, ognuno è solo, trafitto da un raggio di indifferenza ed autismo. C’è il lavoro (nero) a scandire l’attesa e ad alleviare le necessità, c’è la inutile ricerca di una preghiera che sfuma in bestemmia (momento che ricorda il commovente, disperante moccolo de L’ora di religione), il girare attorno alla speranza, alla attesa, il marcare il proprio territorio e conferirgli patente di invalicabilità. Tutto sulle spalle forti di Filippo Timi, attore qui meraviglioso: icastico, tenero, burbero, con quella leggera balbuzie che è l’innalzamento di una bandiera bianca di fronte ai ritmi di una vita che non conosce calma, non concede riposo, predispone attentati alla serenità, pone di fronte ad esseri umani di un altro mondo che non possono capire, né ambire ad essere compresi.
I corpi estranei è un film noioso, ma di quella noia salutare ed antiretorica, pulsante al ritmo di una lentezza che fa male. Film di parole mancate e mancanti, di sguardi che hanno come unico orizzonte possibile il vuoto, di violenze appenna accennate ma che presto rientrano in una ovattata pace rabbiosa e nei passi annaspanti alla ricerca di un futuro. E, per questo ed altro ancora, è un film molto bello.
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