Regia di Mirko Locatelli vedi scheda film
Abbiamo visto La guerra è dichiarata. Abbiamo visto Il padre e lo straniero. Dovevamo vedere I corpi estranei, per tornare sulla terra. Questo film nasce nudo, esattamente come l’Uomo. Ed incerto muove i primi passi dentro quel mistero fastidioso che è il Mondo. Dove ogni cosa sembra atrocemente banale, sfiancante nella sua inequivocabile perentorietà. Gli eventi della vita sono dannatamente chiari, soprattutto quelli più dolorosi e insopportabili. Sono perfettamente lampanti, esenti da dubbi, proprio come certi pregiudizi. E sono, allo stesso modo, privi di un’apparente ragione. Impossibile dire perché un neonato debba essere colpito da un tumore al cervello. Ed altrettanto insondabile è il motivo dell’odio verso gli stranieri, gli appartenenti ad altre etnie e ad altri gruppi religiosi. Se provaste a chiedere ad Antonio, che vive in ospedale col figlioletto di pochi mesi, e non può vedere gli arabi, quell’uomo così solo e sprovveduto si rifiuterebbe, con rabbia, di rispondere ad entrambi gli interrogativi. È così è basta, anche se fa male. La realtà, per me, è questa, e non ci posso fare niente. Antonio non ha tempo e voglia di pensare, di provare a cambiare prospettiva. Quando il tuo bambino è gravemente ammalato, la direzione da seguire è una sola, quella che ti porta ad adoperarti con tutte le tue forze, aspettando, assistendo, pregando, affinché le cure abbiano l’effetto sperato. Il resto può andare al diavolo, oggi più di ieri. Forse non c’è poesia, in questa sofferenza, ma solo attimi di esistenza sospirati uno ad uno, con l’incedere maldestro di chi ce la mette tutta, ma non riesce ad abituarsi all’idea di trovarsi in un ambiente ostile, circondato da nemici impalpabili, come la cattiva sorte, ed avversari in carne ed ossa, come quei ragazzi dalla pelle scura che parlano una lingua incomprensibile ed hanno addosso uno strano odore. Mirko Locatelli osserva le mosse del protagonista con una curiosità vivida, ma discreta e rispettosa di ogni debolezza, incluse quelle che solitamente meno si giustificano, come il disprezzo per il diverso, per ciò che non si conosce, che ci propone un’alternativa inaccettabile, inutilmente complicata, in una situazione nella quale si è persa la strada di casa, e ci si sente a disagio persino dentro il proprio corpo. Nella sua intimità fatta a pezzi dall’emergenza, Antonio avverte l’invasione da parte dell’estraneo come una minaccia più pressante che mai: i suoi spazi individuali sono ora aperti al pubblico, esposti al viavai dei medici, dei pazienti, dei loro familiari. Sono luoghi condivisi malvolentieri e per necessità, come gli scomparti del frigorifero nella sala comune, ed assediati da presenze indesiderate, come quella goccia intrusa che non smette di cadere, nel bagno a fianco, interrompendo il silenzio della notte. Antonio, strappato alle sue abitudini, va ad occupare un angolo di primitiva convivialità, in cui i corpi vengono a stretto contatto, le loro sostanze si mescolano, le barriere cadono, che lo si voglia o no, come naturale conseguenza della vicinanza fisica. Antonio si trova, suo malgrado, a toccare con mano il fondo della vita: quello in cui le differenze non possono contare, dato che le questioni in ballo sono troppo importanti delle nostre personali distinzioni. Non gli piace, quel ritorno alle origini, alle sfide primordiali, alla lotta per la sopravvivenza, per la gestione del territorio, per la difesa delle proprie posizioni. Antonio si sente smarrito ed assediato, su tutti i fronti, e procede a stento, perché non è disposto né ad arrendersi, né a cambiare strategia. Non volendo imparare a camminare, continua a gattonare, sulla scia delle sue visioni infantili e semplificatrici: la sceneggiatura di Giuditta Tarantelli lo segue nel suo acerbo vagolare in mezzo ad un universo umano che, in certi posti speciali, preme per uscire dai ranghi della cosiddetta civiltà, e andare a riscoprire il caotico vagito della Creazione.
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