Regia di Mirko Locatelli vedi scheda film
Antonio è stanco di quella stanchezza fiaccante che solo un’attesa in ospedale può provocare, il suo bimbo piccolissimo è sotto i ferri per un’operazione complessa, lui, umbro a Milano, sta a tanti, troppi chilometri dalla moglie e dagli altri suoi figli. Inganna il tempo con una sigaretta, con un kebab, poi (senza tanta convinzione, come a non lasciare nulla d’intentato), con una preghiera;?la abbozza, s’inceppa, bestemmia forte, ci rinuncia. Non per affidarsi a Dio, né per insultarlo, perché?i corpi estranei di Locatelli non hanno progetti né piani, non si aggrappano alla fede né all’ideologia. È per abitudine che Antonio (Filippo Timi, che modula la sua energia ferina sul doppio tono di tenerezza e aggressività) mal sopporta gli extracomunitari e la fragranza dei loro unguenti, come per abitudine ascolta le frequenze di Isoradio a bordo di un’auto che non va da nessuna parte; il giovane Jaber si insinua da estraneo nella sua camera e nelle sue consuetudini, le mette alla prova smontando pregiudizi, offrendo aiuto pervicacemente non richiesto. Nella dimensione di grigiore dell’anima dell’ospedale, Antonio e Jaber non abitano i luoghi, l’estraneità è il loro unico denominatore comune. Locatelli non insegue l’incontro fra i due; pedina, piuttosto, la loro non appartenenza (all’ambiente, alle comunità, l’uno all’altro). Trovando la via di un realismo asciugato di ogni retorica, anche nel campo minato di un reparto di oncologia pediatrica.
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