Regia di Matt Reeves vedi scheda film
Apes revolution, spiace ammetterlo, altro non è se non un “sequel di un prequel di un remake” (d'autore certo, quest'ultimo, ma girato con la mano sinistra e la svogliatezza di un Burton che si annoia) di una serie gloriosa con protagonista Charlton Easton che fece sognare ed incollò allo schermo molti giovani ora cinqunta/sessantenni, a partire da fine anni Sessanta a tutti i Settanta.
Un bel pasticcio, almeno al primo malizioso e prevenuto pensiero, sulla carta: problematico e doloroso come un fascio di frecce acuminate sul fianco che stenderebbero persino il gorilla più massiccio (per restare in tema, già che ci siamo).
Tuttavia, in una estate italiana vuota e banale come mai da qualche anno, almeno cinematograficamente parlando, questo “sequel del prequel” ci mostra una coerenza e uno stile che, soprattutto se rapportati alla scoraggiante concorrenza di Trasformers 4 (che tuttavia ho evitato come la peste, e direi che molti mi hanno dato ragione), lo erigono a simbolo pressoché unico di un cinema dignitoso, accurato, costoso ma forte di argomentazioni, che ci fa ancora sperare che qualcosa di buono od accettabile possa essere prodotto dalle grandi majors statunitensi, protese a far cassa prima di ogni altro futile altro scopo.
Riprendiamo dunque le fila del discorso (peraltro già ben condotto nel film precedente, L'alba del pianeta delle scimmie, del non lontano 2011), spostandoci di dieci anni in avanti, in una San Francisco ancora più apocalittica, resa spettrale e qua si primordiale dagli effetti devastanti di una epidemia che il precedente episodio preannunciava. Una catastrofe che se da un lato ha decimato la popolazione, dall'altro ha reso possibile il riprodursi in proporzione geometrica della colonia di scimmie geneticamente evolute già a noi ben note, riparatesi dalla prepotenza umana ai confini delle foreste montuose che cingono la metropoli statunitense.
La ricerca, da parte di un manipolo di volontari, di una diga dalla grossa portata di acqua che potesse far tornare l'elettricità in città, consente l'incontro/scontro di due organizzazioni che si possono ormai definire civiltà differenti.
E se da una parte gli umani hanno già dimostrato di quanto sono capaci, di dove arriva il loro cinismo e la loro avidità, con questo dinamico film fanta-civico impariamo come anche una società nascente, e come tale pura e desiderosa di rimanerlo, guardinga nel non trasformarsi nel mostro famelico dal quale si è a fatica sottratta, finisca per ricadere negli stessi errori e nel medesimo vortice di violenza e prepotenza che hanno caratterizzato il proprio nemico. Visivamente le scimmie sagge assumono atteggiamenti e sguardi lineari, mentre gli scenografi e i disegnatori dei progetti trasfigurano quasi come vampiri le scimmie cattive, umanizzate del lato più oscuro della razza dominante. Su tutti il personaggio di Kobe, quello che nel film precedente veniva salvato da un laboratorio che lo aveva impiegato negli esperimenti più crudeli, e che ora impersona il tradimento e l'imbarbarimento, diviene ora un mostro anche nell'aspetto, con denti da vampiro e viso maligno su cui un occhio guercio e opaco disegna un ghigno satanico emblematico e molto efficace per rendere il male, la cattiveria, la sete di vendetta.
Il film si avvale, più in generale, di effetti speciali che rendono le scimmie davvero realistiche e così espressive e duttili da far inquietudine, grazie anche e soprattutto a quello sguardo umano dove il barlume di intelligenza che le rende razza eletta e li eleva a esseri intelligenti, scaturisce e si traduce grazie agli occhi meravigliosi e duttili del grande Andy Serkis, quintessenza dello "sguardo", Gollum, King Kong o, come qui, Cesare che dir si voglia.
La vicenda corale esclude la presenza di altri grandi nomi di star nel cast comunque piuttosto composito, eccetto ovviamente il grande Gary Oldman, al quale bastano poche scene da protagonista assoluto per ribadire l'intensità d'attore che non ha mai mancato di dimostrare altrove.
Matt Reeves, uno che di remake se ne intende (Blood Story è un dignitoso rifacimento, a tempo record, di un film horror scandinavo molto interessante), appare un regista funzionale, perfettamente a suo agio a dirigere attori veri e digitali, circondati da set avveniristici finti eppure così reali ed appassionanti.
Inevitabili sentimentalismi, legati soprattutto alla famiglia del capo branco Cesare, rimangono il tallone d'Achille che pare impossibile riuscire a non scoprire, almeno in parte. Tuttavia il film si sopporta, e grazie al ritmo della concitata vicenda, ci fa metter da parte qualche fastidiosa sdolcinatura di scrittura, per tenerci desti con un'epica che, anche stavolta, sarà destinata con tutta probabilità a creare altre storie, altri capitoli, altri seguiti, speriamo dignitosi e validi come quest'ultimo.
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