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Apes Revolution: Il pianeta delle scimmie

Regia di Matt Reeves vedi scheda film

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La recensione su Apes Revolution: Il pianeta delle scimmie

di M Valdemar
7 stelle



Teaser poster originale

Apes Revolution: Il pianeta delle scimmie (2014): Teaser poster originale




I fieri occhi di Cesare che puntano dritti alla macchina da presa, nell'ultima inquadratura, sembrano oltrepassare lo schermo per rivolgersi direttamente a noi (umani, post-umani e disumani occupanti dell'habitat-sala: spettatori nella/della giungla urbana). Certo, la loro enigmatica fissità prelude ad un possibile ulteriore e ancor più esplosivo sequel, come codice del blockbuster comanda. Ma sono anche, dato quello che si è succeduto nelle due ore precedenti di visione, cristallini portatori di interrogativi e riflessioni nient'affatto banali.
Conflitti - interiori, interni, intrisi di paure ataviche e 'ambientali' - che minano le più semplici logiche della sopravvivenza (solo e unico fine di qualunque specie), la (im)possibilità del pacifico convivere, valori inattaccabili (immancabilmente i primi ad essere aggrediti) quali casa e famiglia, responsabilità individuali e collettive, l'eterna universale lotta per il potere, la violenza come risposta 'naturale'.
E la guerra.
Ineluttabile, tragico e tutt'altro che risolutivo approdo - soprattutto quando gli uni dagli altri "imparano solo l'odio" (sono le amare laconiche parole di Cesare per spiegare la feroce avversione di Koba nei confronti degli uomini) -, catena di azioni e reazioni progressivamente efferate fino all'annichilimento totale, o alla 'supremazia' (termine che non può che evocare nerissimi scenari) di una parte sull'altra.
Tematiche senz'altro non nuove e non prive di alcune (trascurabili) curve scolastiche, ingenuità e fughe retoriche, ed anche in odor di acido stridore per via della natura produttiva nonché della dimensione tendenzialmente ed unicamente 'spettacolare' dell'opera, ma il filo del discorso è tenuto, sin dagli intrecci del copione, in maniera solida e coerentemente efficace. Una rappresentazione - del mondo, dei mondi, del modo in cui piccole grandi apocalissi già fagocitano le cosiddette 'civiltà') - che parte dal piccolo per parlare del grande, che contempla l'ipotetico mentre ritrae il reale: pellicola dei 'nostri tempi' (dove corra il pensiero è facile intuire), che di ciò non ne fa mero strumento dello 'show' (quantunque sia disegno certo non secondario) bensì un uso consapevole e logico, ancorato a una descrizione basilare credibile.
Con i giusti tempi: l'attenzione rivolta alle psicologie dei due gruppi (anzitutto alla nascente nuova specie dominante) è costante ed energica, i caratteri e le dinamiche relazionali hanno ampio sviluppo e cura. Emblematico il lungo incipit, dedicato interamente alle scimmie, al 'processo evolutivo' che le ha viste prendere possesso di terre e adottare il loro sistema di civiltà (ivi compresi insegnamenti e norme/slogan fondamentali quali "ape don't kill ape"): elaborazione potente, immersiva, e nel quale, il posto del celeberrimo monolito kubrickiano sembra essere qui preso da una quotidianità concreta e tangibile, radicata nei territori della 'normalità'. Altrettanto significativa la presenza di Cesare, vero protagonista del film, elevato a figura morale di robusto spessore, e magnificamente 'umanamente' complessa, in ogni sua decisione, scelta, azione, e pensieri, dilemmi, idee, ricordi (da cui i richiami al precedente film - un 'altro' film, inferiore a questo).
A dargli profondità e statura, gli altri personaggi, sia quelli in carne e ossa che quelli definiti dalla (impressionante) performance capture: se Jason Clarke è degno corrispettivo della fazione umana di Cesare (da menzionale la 'totale' prova recitativa dello specialista Andy Serkis), Toby Kebbell sta dietro le pelli di Koba, sorta di nemesi e traditore del signore delle scimmie. Una figura cattivissima (ché si sa: se il villain è azzeccato allora ne guadagnano - e di molto - sia l'eroe che il film), ma nient'affatto monodimensionale: le ragioni della sua crudeltà sono chiare (in passato è stato cavia e oggetto di torture da parte degli uomini), il suo comportamento fa riflettere lo stesso Cesare sulla natura della sua gente ("le scimmie sono come gli umani"). Concetto che ben si esplica nella etereogenità dei gruppi: codardi e idioti albergano ovunque.
Amen.
A risultare magari un po' sottoutilizzato è Gary Oldman (capo dei superstiti, genuinamente reazionario, come si conviene), mentre Keri Russell è presenza discreta dallo sguardo illuminante (evidentemente voluta dallo stesso regista che aveva creato assieme a J.J. Abrams la serie culto Felicity che lanciò la stessa Russell).
Molto del merito della riuscita di Down of the Planet of the Apes (a proposito: ancora una volta incomprensibile il cambio di titolo in italiano, Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie) va al suo regista, Matt Reeves. Già giustamente apprezzato per Cloverfield (tra i veri pochi POV degni di rilievo in questi anni di imperante infestante moda), molto meno per l'inutile remake Let Me In, riesce qui a sintetizzare il meglio del suo cinema. Per larghi tratti, segue e inscena le componenti introspettive e 'statiche' derivanti dalla sceneggiatura (dialoghi - anche 'muti' con il solo linguaggio dei segni tra le scimmie -, monologhi, pensieri), caricandole di volta in volta, degli opportuni pesi di pathos, dramma, commozione, tensione: una gestione, insomma, accorta e mai pesante, malgrado l'apparente 'lentezza' di certi periodi (circostanza che però scontenterà i seguaci del fracasso-style: peggio per loro). Per poi scatenarsi nella sequenza della battaglia, girata e coreografata splendidamente, ed il cui picco emotivo e adrenalico si sostanzia nella clamorosa ripresa in soggettiva dal carrarmato (impronta personalissima per nulla buttata lì a caso): l'azione pare sospendersi in una sorta di terra di nessuno, un punto di non ritorno, e una deriva da cui è impossibile ritornare ("gli umani non perdonano", sentenzia Cesare, conscio del fatto che la guerra è appena cominciata).
Sebbene il progetto in sé abbia discutibili origini (Il pianeta delle scimmie, anno 1968, rimane una pietra miliare della fantascienza distopica), e considerevoli dimensioni produttive (con conseguenti aspettative commerciali e relativi irrinunciabili tratti distintivi), Down of the Planet of the Apes è opera scenograficamente e strutturalmente imponente, nella quale gli strumenti che di solito invadono e ammorbano storia, personaggi e pensiero (vedi alla voce 'effetti speciali', ma anche alle tecniche di riprese e montaggio) vengono utilizzati in maniera sensata e intelligente.
Sì, si possono fare anche così, i blockbuster. Alla faccia (scimmiesca) di tutti i Bay di questo pianeta.

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