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Maps to the Stars

Regia di David Cronenberg vedi scheda film

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La recensione su Maps to the Stars

di Kurtisonic
8 stelle

 

Evan Bird

Maps to the Stars (2014): Evan Bird

La mutazione del corpo è compiuta, la carne non si consuma più arrovellata nei meandri della mente, ma si può replicare e riprodurre dentro un'immagine infinita. Il mondo raffigurato in Maps to the Stars potrebbe essere quello dei Protagonisti di Altman, altro grande autore che ha finito per analizzare le sue Short Stories con la lente d'ingrandimento non per profondità, ma per la riduzione esistenziale della vita comune, alienata e dissociata dalla realtà, che si tratti di appartenenti al mondo del circo hollywoodiano o di persone qualsiasi, contaminate dalla fascinazione dela pulsione di morte che emerge dalle immagini di una quotidianità senza controllo. Il film di D.Cronenberg si allaccia ad una tendenza che sta segnando il corso di una parte del cinema che conta, capace di stimolare non solo profondità di lettura ma di utilizzare una decisa scissione fra integrità del testo e lo sviluppo delle immagini, con lo scopo di ottenere riflessioni indipendenti e slegate dai meccanismi consolidati di traduzione del materiale visivo. Che poi il mezzo di ripresa della realtà, la sua evoluzione tecnologica, il suo divenire corpo sempre più fisico, abbordabile e alla portata, a scapito di un animo umano che se ne discosti criticamente sia un punto fermo del discorso cinematografico di Maps to the Stars è un dato di fatto. Molto vicino ai contenuti e ai simbolismi di The canyons di P.Schraeder da esserne quasi la copia gemella, il film del regista canadese più che un'allarmante grido di denuncia sembra una resa dolorosa, un atto estremo verso l'estinzione dell'immagine e dell'irrecuperabilità dell'essere umano. La rappresentazione risulta sempre distaccata dallo spettatore ridotto a testimone impotente, i personaggi sono manipolati dalla loro stessa immagine pubblica, dai loro dialoghi estenuanti mentre il loro desiderio compulsivo li corrode, li divora. I protagonisti, interpretati da un cast quanto mai all'altezza, sono soggetti sempre più giovani e immaturi, e gli adulti stessi perseguono un infantile mascheramento che cancelli memoria e responsabilità. La scelta del corpo acerbo e in parte ustionato di Agatha (Mia Wasikowska perfetta nella parte) è la prova dell'imperfezione della realtà che viene a chiedere il conto. Il mezzo intanto si adegua, semplice immediato e vuoto, parla direttamente ai suoi giovani interpreti con la loro stessa lingua. Non si può definire debole, frammentata o incompleta, la storia del film rimane obbligatoriamente non decifrabile, costituita nel suo intreccio da parti oscure che sottolineano il suo aspetto spettacolarmente mediatico e attuale. Una comunicazione interrotta, la cui fluidità è ostacolata da tentazioni devianti, filtrata da mecccanismi superficiali che limitano l'analisi e lo sviluppo dei pensieri, connotano l'esistenza dei vari personaggi incanalati verso l'inevitabile punto di non ritorno. Havana, l'attrice in crisi perenne interpretata da Julianne Moore, per liberarsi dai sensi di colpa, dalle ossessioni, dal tempo che le consuma il corpo, disinibisce la mente, libera la sua parte più violenta e delirante affinchè lo specchio le restituisca quello che non potrà mai più essere (e non a caso qualcuno l'ha paragonata ad una moderna Norma Desmond). Un poco marginali le presenze maschili, da S.Weiss lo psico terapista a Jerome l'autista aspirante attore (rispettivamente interpretati da J.Cusack e R.Pattinson) vengono condensate nel nuovo essere, lo spocchioso incosciente Benjee, un ragazzino star di successo. Il suo modo di essere, di fare, di esprimersi, rappresenta la vera cifra culturale e storica che l'uomo moderno ha generato, un mostro ingestibile che se anche dotato dei mezzi per produrre denaro diventa assoluto tiranno della scena. In una sequenza significativa lo strafottente piccolo divo maneggia pericolosamente una pistola davanti agli amici. Quando scarica i proiettili dal tamburo sembra che Cronenberg si stia liberando simbolicamente da quei contenuti ossessionanti che ha cercato di sublimare attraverso la finzione cinematografica, la metamorfosi del corpo, il potere dell'immagine, la virtualità e la carne, l'inconscio e la psicanalisi, la necrofilia, l'orrore quotidiano. La scena culmina con l'unica possibilità di ritrovare il senso della realtà, nella finzione (si spera) a Benjee parte un colpo che uccide il cane di casa, dunque la riproduzione della morte come unica e possibile verità. L'inferno è un mondo senza psicofarmaci, si dice nel film, e quelli che abbiamo a disposizione fanno sempre meno effetto.

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