Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Un’attrice in disfacimento psicologico. Un attore tredicenne in disintossicazione, con padre terapista televisivo e madre in precario equilibrio nervoso. Un autista di lusso con il sogno irrealizzabile di sfondare come sceneggiatore. I loro demoni, i rimossi che ritornano, le agnizioni e le epifanie mortifere come rigurgiti di coscienza: «Il mondo ora saprà che abbiamo commesso crimini». In viaggio tra le rovine di Hollywood, Cronenberg apre l’opera palesandone la continuità con la precedente, mediante la presenza di Pattinson in limousine: se Cosmopolis era il livello eXistenZ del reale contemporaneo, Maps to the Stars ne è quello Transcendence, con l’individuo chiamato a guidare, a giocare, elemento partecipante e artefice diretto del disfacimento. Il cinema è morto e ci rimangono soltanto i suoi fantasmi inconsci (in forma di visioni) e reali (una figlia sbucata dal passato), che nella messa in scena cronenberghiana si materializzano per tentare invano di formulare nuove storie, di narrare ancora. Ma in questa settima arte terminale non c’è più spazio per la narrazione. A Cronenberg non interessa più il racconto, ma soltanto l’isolamento di una porzione di mondo da studiare, al solito, alla maniera degli entomologi. Questo è cinema di corpi ed encefali dissolti, gassosi, autoabolitisi nei campi/controcampi e in dialoghi a base di feci, putrefazione, peti e inerte sangue mestruale. Il cinema è evaporato, e Cronenberg ha fatto evaporare il suo cinema. Un’opera dolorosa e immensa.
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