Hollywood brucia e con lei quello che resta del sogno americano. Una favola nera che il cinema è abituata a raccontarsi per esorcizzare i fantasmi di una crisi che gli appartiene ancora prima di quella che ha colpito il resto del mondo. Annunciata dai guru della comunicazione, la morte della settima arte è diventata, alla pari di altre storie, materia di spettacolo, venendo meno alla sua carica eversiva. A ricordarcelo ci aveva pensato non più di un anno fa Seth Rogen che, nel blockbuster "Facciamola finita" trasformava la mecca del cinema in una Sodoma e Gomorra tutta da ridere, con attori e registi spazzati via per eccesso di egoismo. Questo per dire di un eversione talmente frequentata da diventare normale, e di una trama- quella di "Maps to the Stars" incentrata su una famiglia votata al Dio spettacolo - simile a quelle che l'hanno preceduta, con vizi privati e pubbliche virtù mostrati allo spettatore in un trionfo di grettezza e scabrosità. A fare la differenza nel film di Cronenberg non è quindi la novità dell'escursione antropologica, ne tantomeno il carosello di deviazioni che testimoniano il prezzo da pagare ai meccanismi dell'industria cinematografica; come dimostra in maniera agghiaggiante la visita alla bambina malata da parte di Benjie Weiss (un inquietante Evan Bird, autentica rivelazione), baby star affetto da problemi di tossicodipendenza, oppure, tornado al mondo degli adulti, l'atteggiamento di Havana Segrand (interpretata da una Julian Moore disperata e schizofrenica almeno quanto la Cate Blanchett di "Blue Jasmine"), diva sul viale del tramonto che senza remore, e con molto cinismo, trae vantaggio delle disgrazie altrui. A essere impareggiabile è invece la dimensione di straniamento, e poi il distacco con cui il regista canadese si rivolge ai personaggi.
Sospendendo il giudizio e operando da entomologo, Cronenberg mette in scena un teatro dell'assurdo, popolato da creature grottesce e inermi, destinate per natura all'autodistruzione. Macerie di umanità in cui ritroviamo intatta la poetica dall'autore, a incominciare dalla virulenza del corpo fisico, presente nel film attraverso il peccato originale che il personaggio di Agatha Weiss (Mia Wasikowska) si porta dietro fin dalla nascità, e che non a caso entra in campo in occasione della morte del bambino della collega di Havana, vittima innocente di una contaminazione che da li in poi non risparmierà nessuno. E poi nell'assoluta alterità delle dinamiche relazionali, deformate dal ghigno perverso e obbliquo del regista, pronto a giocare con perbenismo e buone maniere, sbeffeggiate da sequenze come quella della conversazione "escatologica" tra Benjie e il suo amichetto, e dalla scena di Havana intenta a dare ordini alla sua assistente dal water su cui sta defecando. Un gran guignol di sangue e dissolutezze, raffreddato dall'equilibrio geometrico di inquadrature che trasformano le pulsioni della carne in sinapsi cerebrali.
Dopo gli esperimenti metalinguistici di "Cosmopolis" Cronenberg torna sulla terra sporcandosi le mani con un copione volutamente "basso", in cui situazioni e dialoghi (da soap opera) dovrebbero essere il propulsore per una visione decante dell'esistenza umana. Lungi da essere un'opera compiuta "Maps to the Stars" sembra più il frutto di un cambiamento ancora in corso, e di una ricerca di alternative in via di definizione. Lo si intuisce dalla risposta dell'autista, interpretato da Robert Pattison che, alla domanda di Havana sui particolari della sua vita sessuale, si disimpegna con un'affermazione - "sto sperimentando" - che sembra il manifesto programmatico di un autore impegnato a riformulare il suo cinema.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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