Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Maps to the Cronenberg:
Hollywood: la malattia
I divi di Hollywood: i mutanti
Fama, eternità amata immortale: il virus
Denaro: il catalizzatore dell’infezione
Repetita iuvant. D’accordo.
Ma questa ultima fatica di David Cronenberg era davvero così indispensabile?
Ci voleva la “zampata d’autore” per comprendere fino in fondo quanto lo star system hollywoodiano fosse marcio fino al midollo, magari pure tarato geneticamente?
Di certo, è un ponfo purulento.
Da estirpare o da cui estirparsi.
E lasciarlo a se stesso, al delirio indotto dai suoi terribili demoni.
Come nel precedente, potentissimo, Cosmopolis, anche qui non assistiamo più alla mutazione in divenire: la “nuova carne” è già una concreta realtà, ed è deteriore, avariata, putrefatta. Non fa che compiacersi della sua condizione infetta, crogiolarvisi dentro, nutrirsi della sua carica virale.
Hollywood e il suo microcosmo malato e deturpato.
Giovani promesse cresciute, vecchie glorie, impiegati part-time del B movie, tutti ad annaspare nello stesso unico angusto calderone della visibilità a tutti i costi, della competitività senza freni, del cachet-termometro del gradimento popolare. Esseri dall’interiorità deformata, marionette-robot spogliate dell’anima, avvizzite (nate ieri e già cadute oggi) maschere grottesche di un’assurda pantomima che giorno dopo giorno dopo giorno rinnova, instancabile, se stessa, sul fatiscente palcoscenico di un miraggio placcato d’oro (come i premi che dispensa) che si chiama Mecca del cinema.
Catatoniche agonizzanti presenze abbagliate dall’egocentrismo, affamate di protagonismo.
Hollywood, inferno sulla terra, alleviato da psicofarmaci e alcool, lassativi e sigarette.
Asservito al mito del denaro, della gloria, dell’immortalità.
Nell’attesa del consueto tragico ineluttabile finale.
Le creature privilegiate che lo abitano, si distinguono in un mondo anonimo e invisibile, prigioniere delle loro gabbie dorate, ideali prolungamenti di sè (l’automobile in Cosmopolis come le mega ville sulle colline). Paralizzate in una dimensione che non è la vita reale. Chiusa come una camera blindata, insonorizzata, a prova d’urto. Gli unici colpi che riceve sono quelli sferrati dall’interno, capaci di smuovere dalle fondamenta e far crollare quel castello (di carta) di illusioni e sogni inseguiti a perdifiato.
Colpi micidiali quanto una scossa di terremoto lungo la famigerata Sant Andreas Fault.
E poi la ribellione.
Il tentativo da parte di un soggetto ‘espulso’ di mirare alle origini, invertire il senso della mutazione.
Ritornare da dove un tempo si era partiti.
Facendo ammenda, guardandosi dentro. Pareggiare i conti con la propria coscienza.
Il lupo della finanza Eric, in Cosmopolis, attraversa mezza città per ricongiungersi al suo passato remoto, ritrovare tracce (riappropiarsi) del vecchio se stesso, sfatto stanco e arrabbiato; la giovane enigmatica Agatha, qui, arriva a Hollywood dalla Florida (dal lato opposto della nazione) per chiudere definitivamente la partita con un passato doloroso e traumatico.
Ma come?
A mali estremi, estremi rimedi.
Demolendo ciò che si è diventato o si è stati costretti a diventare.
Rinunciare alla vita presente o a quello che somiglia vagamente alla vita.
E salvare (portando con sé) chi può essere ancora salvato.
A Hollywood non conviene avere scheletri nell’armadio, perché il passato ritorna come il più ostinato e implacabile dei fantasmi a tormentare le coscienze corrotte, a scoperchiare vasi di Pandora creduti ermeticamente chiusi.
Riappropiarsi della propria essenza morendo o mutando nuovamente.
Abbandonando il fardello di un corpo provato.
Schiudendo le ali troppo a lungo tarpate. Librandosi nel cielo.
E finalmente, conquistare e assaporare la libertà. Quella vera.
Confezione impeccabile, grande prova d'attori, su tutti una straordinaria Julianne Moore.
Atmosfera fredda e straniante. Che mette i brividi.
Tra simbolismi efficaci, una trama feroce sulla falsariga del noir, suggestioni perturbanti controllate e condotte da un commento sonoro tellurico, che, crescendo in intensità, pare emergere dalle infuocate viscere di una terra altamente sismica (e precaria, come le vite delle star che ospita), ci si domanda, perplessi, quanto dell’autore canadese, della sua poetica, si possa intravedere in quest’ultimo lavoro con trasferta a Los Angeles.
Manca quel guizzo, quel tocco di genio (spesso profetico) che contraddistingue da sempre le sue opere.
Forse dipende solo dal tema, abusato,
forse il segno (indelebile) lasciato dal precedente Mulholland Drive arde di una fiamma ancora così vivida,
e questo Maps to the stars finisce per risultare nettamente inferiore al capolavoro lynchiano.
E che dietro ci sia David Cronenberg è un aggravante.
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