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Maps to the Stars

Regia di David Cronenberg vedi scheda film

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EightAndHalf

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La recensione su Maps to the Stars

di EightAndHalf
8 stelle

Scambiar(si) il ruolo. Lunga vita all’immagine!

 

 

<<Il vero Inferno è il mondo senza psicofarmaci>>.

 

 

Già si vedono, sono lì, scintillanti come i corpi celesti, le delusioni. Quelle che verranno, pioveranno come stelle cadenti, vibreranno urlando “che cosa diavolo è successo a Cronenberg?”. Andranno a ricoprire, in tutta la loro inconsapevolezza, il tumulto debordante di questa nuova impresa del regista canadese. Un esperimento gestito con ironia, sarcasmo e perversione, quasi un gioco (al massacro) in cui tutte le carte stanno al loro posto, e i rimandi luccicano sotto il Sole, esibendosi nella maniera più sfacciata. L’immagine regna sovrana in Maps to the Stars, un’isteria collettiva che ruota intorno a disagi, vuoti e false speranze. Da quando Cronenberg fa film relativamente “normali”, privi insomma del carattere orrorifico e pauroso più esplicito, il fascino morboso della carne deforme e della psiche mutilata scoppietta come bolle in un pentola sotto un coperchio fatto di cinefila banalità. Il bianco metallizzato di un’auto, il nero maleodorante di una metropoli, tutti ingredienti stravisti e stranoti conditi con l’ingrediente segreto della ricetta “Cronenberg”. Tutto collima in un assurdo ammutolito che in Maps to the Stars si manifesta in tutto e per tutto, proponendo un gioco delle parti che sfrutta, non casualmente, Hollywood, per maneggiare i suoi pupazzi del terrore. Per chi lo pensasse, Altman sta da tutt’altra parte: Cronenberg non è interessato alla spontaneità corale o alla catatonica antipatia dei personaggi di America oggi o di altri del maestro americano. Lui realizza una pellicola non destinata al tempo ma destinata a bruciare, un’opera che sembra lanciare il malocchio e incantare nella maniera più sottilmente deflagrante. Senza strafare, ma facendo il deserto intorno a sé.

 

Hollywood è la patria della finzione (e si sapeva!), tutti quanti vivono in questa Hollywood sono nevrotici (e si sapeva anche questo!), e la loro nevrosi è legata o a strani traumi psichici e al fatto stesso di essere attori (vedi sopra!). Le più banali schizofrenie sbalzano contraddittorie ma chiare fin da subito. Ma che meccanismo è quello messo in scena dal buon vecchio David? Una messa in scena meno robotica di Cosmopolis e più popolare, anche se sempre metallica (vedi The Canyons di Paul Schrader). Una sequela di scene oniriche proprio come le farebbero nel più trito film di Hollywood. Una banalità e una menzogna inseguite fino ad affannarsi, per potere vivere in pace con le accuse più risapute e i vizi più conosciuti. Ma chi interpreta chi, in Maps to the Stars?

 

In A Dangerous Method la psicanalisi fallisce nella presunzione di sapere controllare razionalmente la mente umana, e in questo senso trionfa Jung, capace e interessato ad ammettere le sue debolezze. Qui Jung ricompare, con la sua sincronicità e con il suo casualismo imponderabile che lega indissolubilmente le vite dei protagonisti, avviluppate dentro canoni sempre uguali, che vanno dall’isteria alla tossicodipendenza e alla paranoia. Ma perché questa ossessione continua nei confronti dell’incesto? Perché questi irrisolti complessi di Edipo o di Elettra o di altri anti-eroi mitologici (“magari facciamo una storia non troppo pretenziosa, con una spruzzatina di mitologia”)? Cosa vuol dire quell’autoinfliggersi maniacale di stordenti psicofarmaci? Come si inserisce questa nuova componente assolutamente originale in questo apparentemente farraginoso intreccio che sfiora e sfida il ridicolo intrattenendo e passando, volenti o nolenti, come un fulmine?

 

Rincorrere l’interpretazione, “lottare per lo specchio”, suicidarsi da vivi vivendo in  un’altra parte. Non la parte che impone la società, non la parte delle convenzioni, non la parte della moralità. Decidere, coscientemente, di vivere altre vite. Sdoppiarsi, annullare la propria identità. Ma per vivere cosa? Sostituirsi a chi? Ai genitori con cui si vive un rapporto irrisolto? Ad altri attori sperando e rallegrandosi per una loro tragedia (che, sfortunatamente [si fa per dire], proibisce loro di interpretare la parte che invece vuole qualcun altro)? Per sostituirsi a un genitore che è per di più un attore? E chi lo dice che la persona con cui ci si vuole sostituire, per rispondere ai propri drammi psichici e alle proprie controversie, non sia già intenzionata a sostituirsi, a sua volta, con qualcun altro? Quello di Maps to the Stars è un circolo vizioso e un girone infernale, una riflessione a posteriori sull’identità, talmente estremizzata (in un finale stordente) da rasentare il grottesco. Ma che grottesco? Un grottesco ponderato, geometrico, tanto straniante quanto bestiale.  Vivere sotto il riflettore di un altro e constatare che è il mondo ad essere pazzo e non noi stessi, e che dunque qualunque atto estremo è alla fine giustificato. Così, per rincorrere un’altra illusione. Cercare forse un senso? O forse i personaggi di Maps to the Stars a questo hanno rinunciato fin dall’inizio?

 

E poi, come fa quel finale tanto assurdo ad essere, alla fine, prevedibile? Com’è che arriva tanto bizzarro e tanto straniante quando non poteva andare a finire diversamente? È la solita vecchia storia di un film che, come i suoi personaggi, cerca l’autodistruzione? E con lui l’estetica, la pellicola, l’ideologia dell’autore? O non è forse vero che Cronenberg, anche nel momento più assurdo, mantiene una lucidità da lasciare esterrefatti? Rivela che era tutto già predisposto, e che tutto corrisponde a un meccanismo generale che va a influenzare e collegare tutte queste singole, esibizionistiche, presenze?

 

I personaggi di Maps to the Stars sono morti che camminano. Se ancora l’esistenzialismo fosse in voga, e affermasse come l’esistenza del singolo sia una possibilità, Maps to the Stars confuterebbe in toto simile tesi, perché le vite degli attori di Hollywood sono definite, delineate, già decise. Non c’è scampo, non c’è rimedio, c’è solo uno stato continuo di tensione. Quella del regista e dello spettatore, ancora prima che dei personaggi. Il solito banale  cupio dissolvi? O lo stralunato portare a termine un dissolvimento che è già avvenuto?

 

Come mai in altri film di Cronenberg, le esplosioni di violenza e di assurdo sono esplicitamente superflue. Sono precedute dalla tensione, ma mantengono inalterata questa stessa tensione anche se sono avvenute. Eppure sono lì, a momenti con effetti speciali fatti male, a momenti prevedibili, a momenti calcolatissime. Eppure sono lì. E non si può credere che Cronenberg si sia lasciato andare alla grossolanità, perché il film contiene troppi piccoli dettagli per lasciar trapelare una disattenzione di fondo. La verità è che gli attori, tutti quanti, nei loro film come nella vita, recitano, ma recitano una parte che non gli è stata affidata da nessuno, né da registi né da convenzioni sociali. Decidono di andarsene dalla loro stessa abitazione corporale, e per farlo vivono in questo stato di costante e sotterranea alienazione per poi esplodere e distruggere il proprio corpo. Esibendone l’incenerimento, il soffocamento, la violenza. Morte che è un colpo di pistola, bang!, la fine che avevamo sempre saputo ha sentito la necessità di proporsi davanti a noi con la durezza di un uragano, speranzosa di trovare un pubblico con un cuore e in grado di stupirsi e sconvolgersi, nonostante sia tutto già deciso e stabilito. Lo straniamento colpisce in fondo ai sensi. Lo spettatore si ritrova in immagini in cui la forma prevale sul contenuto, e in cui la forma è il contenuto. E non c’è speranza che sia altrimenti. Perché la finzione è l’unica speranza rimasta.

 

Ripercorrendo le briciole lasciate nella direzione prefissata, verso le stelle, non si può non arrivare a simile conclusione. E l’immagine impazza e infuria, essendo ormai estesa alla vita reale. Quello che in The Canyons era esplicito qui è ben più sottile. E quando un personaggio finisce per avere le visioni di qualcun altro, assolutamente lontano seppur vicino poiché condivide lo stesso stato (non)esistenziale, si capisce che l’occhio di Cronenberg è il collante di tutte le parti scorrette ma tirate a lucido di Maps to the Stars. Il gioco diabolico dispone le sue trappole, destabilizzando abbastanza da garantirsi un dibattito cinefilo destinato a durare a lungo. Diffidare dei giudizi affrettati, Maps to the Stars va visto di persona. E nel bene e nel male è imperdibile.

 

Libertà, parola di Paul Eluard.

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