Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Delude l’ultima fatica di Cronenberg. Un piccolo passo avanti rispetto a “Cosmopolis”, ma non è sufficiente a salvare il film. Pare che il regista canadese non abbia nemmeno lui ben chiaro cosa cerchi e cosa voglia da questo suo ennesimo nuovo corso. La sua carriera è stata, negli scorsi decenni, fra le più brillanti, tanto da renderlo uno dei giganti del cinema contemporaneo. Ha saputo cambiare pelle per spostare sempre più in avanti la soglia di un discorso che, con tutte le variabili del caso, verte attorno al concetto di post-umanesimo. Di questo, attraverso la parola chiave “mutazione” (prima dei corpi, poi di pensieri ed emozioni), parlavano i suoi film, siano gli horror “biologici” della prima ora, sia gli psicodrammi dell’età matura. Da un decennio a questa parte, Cronenberg ha spostato l’obiettivo della sua trattazione verso una astrazione sempre più sfuggente ed inafferrabile. E ha ottenuto risultati notevoli con “History of violence” e “Eastern promises”, ambigui e stratificati balletti di identità indefinibili. Con gli anni 10 pare voler rendere ancor più teorico il suo discorso, approfondendo la componente sociologica: due anni fa, la finanza drogata di “Cosmopolis”; ora la Hollywood aberrante del nostro evo. “Cosmopolis” fu un buco nell’acqua, così schiavo del testo di DeLillo e di una limousine eletta ad allegoria di una parabola economico-tencologica avara di significati, di immagini, di cinema. “Maps to the stars” invece desta interesse per l’intreccio ingegnoso di (non-)vite che si fanno eco l’una con l’altra: presente e passato si annullano, così come le specifiche identità dei personaggi. Le parole, gli episodi, i gesti (e di riflesso, in maniera fin troppo sottolineata, le inquadrature della mdp) si riciclano in un loop asfissiante, palleggiandosi e rispecchiandosi fra personaggi che compongono un desolante catalogo di disumanità. Non c’è differenza fra persone mature e giovani (le prime sono ancora piacenti come ragazze e capricciose come bambine; i secondi sono smaliziati, cinici e tossici come gli adulti), fra amanti e fratelli, realtà e immaginazione/ricordo/sogno, carne viva e fantasmi. La ricorsività della messinscena si riallaccia al grandissimo “Crash”, che resta uno dei film fondamentali del canadese, ma anche a recenti loop cinematografici tanto diversi fra di loro come “Holy Motors”, “Spring Breakers,” The Canyons”, grotteschi balletti di fantasmi di un immaginario terminale. Quello che si è detto del film di Schrader (ossia la fine del cinema, del personaggio, delle storie etc…) andrebbe semmai attribuito a “Maps to the stars”. Il problema però è che Cronenberg, pur col suo gelido distacco capace di evitare ogni compiacimento, pare voler accettare passivamente questa fine, senza voler davvero proporre un valore alternativo. Causa ed effetto di questo approccio sono dialoghi francamente futili e tediosi, tirati per le lunghe, intere scene che difettano di brillantezza, puramente meccaniche. E abbondano anche i momenti in cui viene pacatamente illustrata la decadenza di un mondo dello spettacolo dove il successo è un valore così importante da cancellare qualsiasi scrupolo di coscienza: tutte cose già viste ovviamente, condite da abiezioni intollerabili come cagnolini ammazzati, bimbi strangolati e donne che esultano per l’affogamento di un bambino (una scena davvero disturbante, tanto che di lì a poco è un sollievo vedere Julianne Moore, bravissima come al solito, massacrata a sangue con una statuetta-premio!). Il ritratto corrosivo, per quanto impotente, di questi rifiuti umani non è privo di momenti di efficacia (sempre la Moore, seduta sul cesso a scorengiare, privata in un attimo di tutto il suo sex appeal), ma resta comunque inerte, fine a se stesso, non permettendo agli alti spunti tematici di integrarsi in modo fertile. Appurato che i fantasmi di una persona posso perseguitare anche gli altri e definito l’universo-Hollywood come una galleria degli orrori che sarebbe bello fosse spazzata via dalla faccia della Terra, cosa rimane, ad esempio, del personaggio di Agatha? Dei traumi infantili? Della psicoanalisi? Della piromania? Dell’incesto? Del taxista aspirante attore? E la celebrazione finale, che cerchio va a chiudere (o ad aprire)? Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia, ma si fa fatica a trovare un pezzo che sia ben cotto. E’ difficile trovare almeno una chiave interpretativa che impedisca al film di brancolare nella nebbia di una poetica, quella di Cronenberg, che se nei decenni scorsi pareva lucida, ora si è fatta opaca, smarrita nel caos di un cinema troppo debole, troppo fragile per potersi porre con autorevolezza fra quelli ancora in grado di rappresentare con forza i turbamenti dell’epoca in cui viviamo.
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