Regia di John G. Avildsen vedi scheda film
Strano destino quello di Rocky Stallone Balboa: ho scritto questo nome e cognomi proprio perché c'è un legame triplo che accomuna il film, l'autore ed il personaggio di questa storia in cui pochi credevano, come non credevano in Stallone superstar, come non credevano nel tenero Rocky i personaggi che lo circondano all'interno della pellicola ed invece è lui a vincere senza trionfare conquistando il cuore degli spettatori, quello di Adriana e quello dei membri dell'Academy che lo preferirono ad un film tagliente e di denuncia come "Network" per non parlare di quell'autentica pallottola nelle budella che è “Taxi driver”, al contrario della favola pugilistica diretta con mano sapiente da un regista non eccelso come John Avildsen la critica messa in scena dal grande Sidney Lumet agli americani rincoglioniti dalla televisione, capace di farti credere che la merda è buona soprattutto se lo dici al notiziario delle otto, è cruda e amara e non poteva far sognare per un paio d'ore come riesce a fare Stallone con la sua parabola.
"Rocky", Stallone e Balboa sono, erano degli underdog, termine anglosassone che significa proprio sfavorito, con poche possibilità se non nessuna di ribaltare il pronostico e approfitto per sottolineare come stranamente nella nostra lingua per esprimere questo concetto venga usata un'altra parola inglese che significa emarginato, di periferia, "outsider" appunto, misteri della linguistica moderna detto ciò e ch)usa la parentesi vorrei aggiungere che questo film sfrutta l'ambiente pugilistico ma non è propriamente un film sul pugilato, le scene di lotta sono molto coreografate e l'aspetto realistico di questo sport non è del tutto rispettato ma a me personalmente frega ben poco perché il film centra l'attenzione sul carattere e l'ambiente in cui è immerso Rocky con la sua filosofia di vita, il messaggio che ci vuole dare di uno che non ha avuto in mano un poker servito ma si e no una coppia di tre e neanche mezza figura e comunque lotta, crede in ciò che fa arrivando in fondo, almeno quello e non se la fa sotto, o almeno non lo da a vedere, di fronte alla possibilità di dimostrare che ha delle doti ed una grinta che possono mettere in difficoltà il campione del mondo dei pesi massimi Apollo Creed che si aspettava una passeggiata ed invece vince ai punti senza entusiasmare e come si dice dalle mie parti con una bella zampata nel culo da parte dei giudici, insomma Rocky ci vuole convincere una volta di più che bisogna crederci, impegnarsi fino ad avere la lingua di fuori: se la prima volta che fai di corsa la scalinata del Philadelphia Art Museum la milza ti scoppia non devi abbatterti e rifarla finché non la butti giù come un bicchiere di chiare d’uovo e questa è soltanto una delle scene stupende filmate da Avildsen con l’utilizzo dell’allora aveniristica Steady Cam manovrata dal mitico operatore Garret Brown, pensate che fino a quel momento l’utilizzo dell’innovativo dispositivo era stato registrato solo in “Marathon man” di Schlesinger e “Bound of glory” di Ashby.
Rocky e Sly sono una cosa sola nata dalla sua mente e messa sulla carta nel giro di tre giorni, difesa con le unghie da produttori per niente sprovveduti che avevano fiutato l’affare ma non volevano concedere al suo ideatore la chance che Apollo inconsapevolmente gli concede nella sceneggiatura da lui stesso ideata e cioè di poter arrivare fino in fondo da protagonista, nonostante avesse un conto in banca di poco superiore ai cento dollari Stallone rifiutò tutte le cospicue offerte piovute da ogni direzione che non lo consideravano mai adatto ad interpretare Rocky escludendolo dal progetto anche a discapito del suo cane che stette a dieta per parecchio tempo ma Stallone sapeva di essere ad un punto cruciale della sua carriera, era sicuro di poter cambiare marcia raccontando questa storia e di poterla vivere da protagonista.
Alla fine trovò in Irwin Winkler e Robert Chartoff i produttori tanto cercati che avessero anche l’intenzione di concedergli la parte che tanto desiderava pur essendo al verde senza auto, ma questa clausola dimezzò il già misero budget di 2 milioni di dollari messo a disposizione dalla United Artists perché non c’era una star ad interpretare il pugile italoamericano, si cari affezionatissimi e pochi amici, Rocky costò un misero miione e sforò di appena centomila dollaretti, causando non poche privazioni e rinunce mentre lo realizzavano, ma non per questo il film ne ha risentito anzi una scena famosissima e tenera come quella della pista di pattinaggio il giorno del ringraziamento è nata proprio da queste ristrettezze economiche visto che le trecento comparse previste nella sceneggiatura costavano troppo e furono letteralmente estromesse dallo script dando vita ad un dialogo importante ed intimo fra Rocky ed Adriana che esce finalmente dal suo guscio silenzioso, proprio Talia Shire fu un’altra scelta dettata un po' dal portafoglio e un po' dal copione perché la prescelta Susan Sarandon era troppo sexy e non ci stava per un cavolo e col cavolo ci sarebbe stata a quelle cifre mentre la sua sostituta intimorita dall’influenza che si portava dietro durante la lavorazione del film ha dato vita alla bella scena in cui si bacia intimidita con Rocky nel suo appartamento buio, la sua titubanza è dettata dal timore di attaccare la malattia a Stallone che invece rimase entusiasta del risultato tanto da eleggere la sequenza come la sua preferita di tutta la serie anche perché è la chiave di volta del personaggio femminile interpretato ottimamente dalla Shire.
Un’latra scena che a me piace moltissimo è quella in cui Micky va quasi ad elemosinare l’incarico di manager a Rocky dopo averlo preso a pesci in faccia per tutto il film, entrambi sanno di avere torto e ragione e di condividere la stessa etichetta di underdog su cui mai nessuno ha puntato mezzo dollaro, la girarono nei pressi di un cesso puzzolente e fu prevalentemente improvvisata con il bel tocco finale di Avildsen che conclude l’aspra discussione con una stretta di mano in campo lungo senza far udire agli spettatori ciò che i due si dicono (Hitchcock insegna….) con il solo bel tocco di piano di Bill Conti a commentare il tutto, ha un ruolo fondamentale la sua celeberrima partitura: la fanfara altisonante ha un sound seventy che manda al tappeto quei quattro reppettari con i coglioni molli che fanno film come Eit Mails esplodendo in un solo di Strato coadiuvato dai tamburi con le pelli tirate come piace a me, questa è musica cari i miei EmeneM’s, Snupp Dog che sei proprio un cane, Poracc Shakur pace all’anima sua, e Disarticolo 31……si 31…..e riscrivo 31.
Insomma “Rocky” è il classico film che picchia ai fianchi, diverte, emoziona, con la sua genuina semplicità di favoletta romantica e le sue correzioni in corso d’opera su errori in fase produttiva come i pantaloncini rossi di Balboa nel manifesto o il suo accappatoio di una taglia più grande: non c’erano soldi e tempo per correggerli? Via… scriviamoci sopra una scena, o una battuta che ci porta direttamente allo scontro finale, vero nucleo genetico del film preso pari pari da un match fra Alì e un underdog che più under non si può come Chuck Wepner capace di mandarlo al tappeto dopo nove riprese ma massacrato per le restanti sei, nessuno pensava potesse arrivare alla fine e invece come Rocky arrivò in fondo anche se non c’era ad aspettarlo uno dei finali più famosi di sempre con Stallone tumefatto in volto che grida all’intervistatore Adriana a go go e conclude il tutto con un bell’abbraccio e il più classico degli I love you, tanta enfasi, tanto zucchero ma tante emozioni scaturite da un film fatto con due lire al contrario del terrificante “Alì” visto di recente: tecnicamente perfetto, con ricostruzioni minuziose dei match e del periodo storico ma freddo e palloso come un cono pralinato infilato nel deretano.
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