Regia di Ettore Scola vedi scheda film
Dieci anni dopo la sua ultima impresa cinematografica, il fiacco Gente di Roma, Ettore Scola torna dietro la macchina da presa per firmare un doppio epitaffio: quello a colui che è sempre stato considerato il più grande regista di tutti i tempi (cinque oscar in bacheca e un aggettivo, felliniano, nel vocabolario) nel ventennale della sua scomparsa e quello al cinema, ricorrendo a un metalinguaggio di cui aveva già fatto uso in Splendor. Nella sua personalissima dedica a Fellini, frutto dell'amicizia di una vita, la finzione si alterna alle immagini di repertorio, la voce originale del Maestro si sovrappone alla recitazione in playback, il racconto della parabola artistica del regista riminese viene raccordato dalle apparizioni di un narratore che irrompe sulla scena. Trasuda nostalgia e impaccio, come già era accaduto proprio nell'opera precedente, il film di Scola: tradisce l'incapacità di tenere in ordine le idee, nonostante qualche intuizione ancora guizzante (ma i tempi di C'eravamo tanto amati sono ormai lontanissimi, così come quelli del suo ultimo capolavoro, Che ora è), e la sproporzione tra le parti. Sicché gli esordi di Fellini impiegato presso la redazione romana del Marc'Aurelio (dove lavorava gente del calibro di Age & Scarpelli, Maccari, Metz & Marchesi), giornale satirico nel quale otto anni più tardi sarebbe approdato lo stesso Scola, debordano dal copione, mentre la lunga stagione passata dietro la macchina da presa o a scrivere testi per l'avanspettacolo e il cinema, sono ridotti a ben poca cosa. Nostalgico, imperfetto, molto didascalico, il film restituisce comunque la sensazione del rimpianto, i ricordi di una giovinezza epica, il rammarico per una stagione della vita ormai inesorabilmente passata.
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