Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
“Lui perdona sempre a tutti quanti, ma invece non sempre bisogna perdona’”. Un affresco monumentale, potente e straziante, di un’epoca ormai tramontata che ha cambiato radicalmente il volto del Paese e le vite di milioni di persone. Al centro il travaglio dell’emigrazione meridionale al Nord.
Già l’inizio coi titoli di testa, l’arrivo notturno della famiglia in quel di Milano, in qualche modo dà una misura del tono del film, cupamente melodrammatico ma mai melenso, sdolcinato o eccessivamente enfatico. Tenta – e riesce – a fondere, difatti, il più tragico e schietto realismo con l’epopea, di nuovo il melodramma, pregno di significati e di ascendenze letterarie e teatrali.
Tra modernità e tradizione, lo sradicamento una famiglia che vedrà posti in discussione e poi infranti tutti i propri arcaici valori, da quelli più retrivi a quelli più umani. Ma il film non è manicheo: un personaggio come Ciro – che pur sul finale enuncia quella che è una delle morali del film – rischia fortemente di scivolare in un conformismo d’altro segno, piccolo-borghese, altrettanto capace di costruire intorno ai singoli gabbie di costrizione (non a caso il regista ebbe a dire, a questo proposito, che “diventerà un piccolo borghese, poi forse un grosso borghese. Non lo so ancora, ma lo sento così”) [ 1 ]. Non tutto, della tradizione, è negativo e non tutto, della modernità, è da abbracciare, e viceversa.
Rocco e i suoi fratelli costituisce una tragedia degli ultimi, tra Verga e Dostoevskij, nella quale l’impatto, scioccante, con la realtà aliena della grande città disintegra certezze e granitiche fedeltà (tanto che pure il sentimento fraterno verrà messo a dura prova).
“Il contrasto tra due opposti modelli di civiltà consente al regista di narrare la decadenza di un modello familiare atavico e tribale […] una struttura forte e soffocante come un pugno” [ 2 ], sostenuta strenuamente da una madre che pretenderebbe dai figli assoluta dedizione alla stessa, a prescindere dalle terribili colpe delle quali uno di loro si macchia.
Ma il modello alternativo, milanese, urbano, borghese, che pur irretisce con le sue sfavillanti promesse, mostra altrettanti segni di piatta omologazione, ipocrisia e annichilimento della prospettiva individuale, alla perpetua ricerca di un benessere per il quale si è disposti a tutto e che pure quando ottenuto non sembra appagare (la discesa verticale di Simone è, va da sé, paradigmatica).
In tutto questo, Rocco è forse il personaggio più tormentato, che non vorrebbe perdere l’attaccamento alle proprie origini e proprio per questo si costringe a perdonare anche le più viete nefandezze fraterne, in nome dell’asfissiante dedizione ad una concezione “totalitaria” e inscindibile della famiglia, in accordo con la madre che vede nel figlio Simone una vittima invece che un carnefice. “L’amm a aiuta’”, dice Rocco. Ma – come ricorda invece Ciro al fratellino Luca – non tutto si può e si deve perdonare.
La parabola di Nadia rileva anch’essa il lato oscuro di una città e di un intero mondo, che facilmente fagocita i più deboli, ponendoli persino gli uni contro gli altri. La vita, a lei, non pare aver regalato alcuna felicità che non si sia rivelata effimera e l’abbandono di Rocco le farà definitivamente perdere ogni speranza in un avvenire migliore.
L’atterrante sequenza all’Idroscalo conclude, in un tripudio di simbolismi – tra l’Idiota e la Carmen [ 3 ]–, una vicenda di violenza e stupro, di viltà e meschinità, di egoismi e martirii, che lascia ben poche pie illusioni sugli effetti che la miseria più nera – e, in caso, l’arricchimento repentino – hanno sui legami famigliari e umani e su qualunque morale ed etica.
Forti e intriganti i contrasti del B/N di Rotunno che accompagnano alla perfezione i fortissimi contrasti emotivi della trama. Come sempre attentissimo al dettaglio della ricostruzione Visconti, che riesce a cavar fuori dai propri attori performance lancinanti e vere: magistrali, in particolare, le interpretazioni di Salvatori (ridotto quasi letteralmente ad uno straccio nell’ultima mezz’ora) e di Girardot (la quale riesce a rendere palpabile l’assoluta tristezza che si cela dietro l’apparente allegria di Nadia).
La miseria, l’orgoglio, la gelosia, la fedeltà, l’amore, il tradimento: vicende e passioni poderose e senza tempo agitano questo film; un vero pugno nello stomaco e uno dei più straordinari risultati della cinematografia italiana; un ennesimo capolavoro proveniente da un’irripetibile stagione di capolavori.
[ 1 ] Cit. da “Cinema Nuovo”, settembre 1960, p. 404, riportata in A. Bencivenni, Luchino Visconti, Il Castoro, 1995, p. 47.
[ 2 ] Ivi, p. 45.
[ 3 ] Ivi, pp. 49-50.
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