Regia di Paul Verhoeven vedi scheda film
Sì, è stavolta il turno di RoboCop, quest’indubbio, totemico caposaldo della science fiction anni ottanta, quando imperavano i film sugli androidi e giganteggiava Philip K. Dick in quelle che, a tutt’oggi, rimangono le trasposizioni più inventive e coraggiose tratte dalle sue opere, nonostante l’abbiano saccheggiato a man salva spesso in maniera riprovevole e illegittima, deturpandone la poetica e adattandola alle spielberghiane pacchianate simil-Minority Report e dolciastre baggianate affini.
Dal suo celeberrimo Il cacciatore di androidi, Ridley Scott realizzò il suo immortale e magnifico, imbattuto Blade Runner e, dietro un altro capolavoro della fantascienza degli eighties, ovvero Terminator di James Cameron, le fonti d’ispirazione letterarie furono certamente molteplici ma nessuno mi dissuaderà mai dal credere fermamente che Cameron e gli sceneggiatori del suddetto film con Schwarzenegger non abbiano in fin dei conti estrapolato, seppur non dichiarandolo, tantissimi elementi da Dick.
E a proposito di Schwarzy, sì, ufficialmente la seconda opera cinematografica tratta da Dick, dopo il succitato Blade Runner, è stata Atto di forza, dal suo racconto breve Ricordiamo per voi. E Atto di forza è di Paul Verhoeven, l’autore di RoboCop.
Sì, ok, ma che c’entra RoboCop con Schwarzenegger e Dick?
Ecco, RoboCop è un film del 1987 mentre Terminator dell’84. Atto di forza invece è venuto dopo.
Ma nessuno mi darà a bere che gli sceneggiatori di RoboCop, allestendo uno script con al centro un uomo-macchina indistruttibile, non abbiano attinto, seppur non esplicitandolo a chiare cifre, da Dick e da Terminator stesso.
Tant’è vero che, per il trailer originale di RoboCop, fu utilizzato l’identico theme di Terminator. E Verhoeven, in merito all’utilizzo di questa colonna sonora nel filmato di lancio, ammise che Terminator gli era piaciuto tantissimo. E quindi voleva omaggiarlo.
Non è dunque soltanto una considerazione personale da adoratore dei parallelismi meta-cinematografici o forse metafisici. RoboCop è un film inauditamente violentissimo, ai limiti della censura, che fu vietato ai minori di anni 18 e la cui versione integrale si può vedere solo acquistando il Blu-ray con le scene estese, approntate dallo stesso Verhoeven, ma più che altro RoboCop è un film che sarebbe, a mio avviso, obbligatorio studiare in qualche università filosofica per meglio imparare il concetto esistenziale di ontologia.
In quanto è la storia di un uomo che c’è, viene mutilato, poi trivellato, scannato e ucciso in modo esecrabile e barbarico, smembrato e macellato, quindi viene ricostruito chirurgicamente come un mostro di Frankenstein avveniristico, con protesi metalliche e impianti neuronali a base di hardware dalla memoria perfettamente artificiale ma conficcati nel midollo spinale del suo cervello resettato eppure tanto eternamente indistaccabile dalla sua anima giammai davvero defunta. Perché, dalle memorie sue apparentemente sepolte, RoboCop s’incarna quasi cronenberghianamente nel Crash eXistenZiano de La zona morta d’un Peter Weller commovente e umanamente-umanisticamente da brividi.
Ed è forse un caso, secondo voi, che proprio David Cronenberg abbia voluto Weller ne Il pasto nudo?
Non credo siano coincidenze e circostanze del destino. RoboCop è un film forse di Cronenberg firmato da Paul Verhoeven, uno che se, non si perdeva con Showgirls e amenità sciocche di sorta, anzi di “sorche”, poteva ambire, altroché, a diventare un secondo David forse persino più cinicamente divertente e folle.
Verhoeven è più vecchio di Cronenberg ma è un tipo che, in quanto a istinti primordiali a base di fantasie virtuali e non, di realtà parallele, distopiche, immaginarie, futuribili, e metallurgiche anime infrante, ricucite e riaccese, secondo me non ha niente da invidiare a Cronny.
So che per questa lapidaria mia affermazione mi vorrete ora lapidare ma non voglio dilapidarmi in giustificazioni. La penso così. Lapidatemi pure.
Sì, Verhoeven, da Atto di forza a Black Book, ha dilapidato enormemente il suo talento, trascurando il passabile, antropologicamente e sociologicamente interessante Basic Instinct e il provocatorio ma forse innocuo Starship Troopers.
Ma non dilapidiamoci in chiacchiere e filmetti in cui Paul ha non poco scialato.
Basterebbe RoboCop per erigere una lapide monumentale a effigie della grandezza di Verhoeven.
Passiamo alla trama...
In una Detroit fittizia, dominata dalla barbarie, la totalitaria Omni Consumer Product, multinazionale oramai all’apice del monopolio amministrativo, assurta vertiginosamente a dominatrice assoluta dei destini degli abitanti della grande metropoli del Michigan, ha stipulato un accordo col governo comunale per operare e agire “ad personam” all’interno del dipartimento poliziesco.
I suoi potenti, capitalistici affaristi vogliono soppiantare la delinquenziale, logora Detroit con Delta City, una megalopoli vergine ripulita da ogni crimine. Ove possa dominare la pace perpetua e l’utopistica, forse, ma meravigliosa armonia purissima. Un luogo che possa splendere beatamente come apoteotica oasi paradisiaca del quieto vivere immacolato e infinito.
Così, decidono di sperimentare alcuni robot ammazza-crimine. Il primo esperimento si rivela un sanguinoso, catastrofico disastro.
Ma intanto è stato assassinato il bravo poliziotto moralmente inappuntabile Alex Murphy (Peter Weller), sterminato da una gang di rapinatori che Murphy voleva consegnare alla giustizia.
Perché allora non riesumare il suo inutile cadavere e trasformarlo in RoboCop, un automa umanoide invulnerabile, generato per devastare la feccia e far piazza pulita di ogni bastardo immondo?
RoboCop adempie impeccabilmente al suo integerrimo dovere, ma RoboCop non è solo un ammasso di rilucente ferraglia. Possiede, oltre all’espressivo viso, soprattutto l’anima di Murphy.
Sì, il suo nome non è RoboCop, lui si chiama Murphy. Eh già.
Murphy non può dimenticare l’abominazione che ha subito, Murphy ora si vendicherà in maniera titanica, come un cristologico angelo colossale ritornato al mondo, risvegliato dalla morte, miracolosamente ripartorito in Terra per portare a termine trionfalmente una redentrice missione indimenticabile.
Strepitosa fotografia mortifera e abissale di Jost Vacano. Musiche di Basil Poledouris.
Ebbene, dopo i due seguiti inefficaci (anche se il secondo, non del tutto malvagio, portava la firma d’Irvin Kershner) e il reboot deludente di José Padilha del 2004, non ci resta che attendere la versione “deluxe” del RoboCop Returns di Neill Blomkamp.
Chissà se, come accennato e lasciato a noi supporre da Blomkamp attraverso le sue recenti dichiarazioni, sarà ancora Peter Weller a incarnare RoboCop.
Magari. Anche se adesso Weller ha la bellezza di settantuno primavere.
A proposito, che fine ha fatto Nancy Allen, ex moglie dell’altro geniaccio Brian De Palma?
di Stefano Falotico
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