Regia di Peter Berg vedi scheda film
2005. Operazione Red Wings. Guerriglia montana. Fra boschi incolti, distese rocciose e serpenti letali. 4 soldati scelti del comando speciale Navy Seal (marina militare USA) sono in missione sulle impervie alture dell’Afghanistan col fine di neutralizzare una pericolosa cellula operativa di Al-Qaeda. Ma la sfiga vuole, o semplicemente l’Afghanistan vuole, in quanto tale, che l’operazione fallisca rovinosamente in seguito ad un’imboscata abilmente studiata, con terribili conseguenze per il piccolo manipolo di marines che, su quelle montagne rocciose di terra straniera, isolati e lasciati a se stessi (la trasmissione radio è assente), senza possibilità di battere in ritirata, opporranno una strenua resistenza secondo i dettami galvanizzanti del loro motto, che mai veramente avrebbero pensato di mettere in pratica. Arrivando a rispondere al fuoco col fuoco, fino all’ultimo proiettile in canna. Continuando a difendersi e attaccare nonostante le innumerevoli profonde ferite a martoriarne i corpi temprati dal rigidissimo addestramento militare. Fino alla fine, fino all’ultimo fiato in gola. Fino a che la speranza e le forze e la lucidità mentale, e una buone dose di fortuna, non li avrebbero completamente abbandonati.
La guerra in Afghanistan per gli americani statunitensi è un secondo Vietnam.
Una seconda “sporca guerra”.
A cambiare è solo il contesto.
Dal caldo umido al caldo secco.
Dalle paludi malsane del sud est asiatico all’arido deserto mediorientale.
Non più la foresta pluviale e le sue insidie ben nascoste ma la scoscesa, e tra le più alte al mondo, catena montuosa dell’Hindu Kush, con le sue insidie, stavolta, sotto la luce di un sole cocente.
Non più il vietcong ma il talebano. Entrambi perfetti conoscitori del proprio territorio, entrambi agili veloci scattanti.
A rimanere le stesse, sono le tattiche di guerra, le dinamiche assassine. Quei meccanismi ‘diabolici’ che le regolano.
E naturalmente non il minimo scrupolo nel far fuori il nemico invasore.
Vietnam e Afghanistan: trappole per topi a cielo aperto.
Un tempo si sperava di salvare la pelle inabissandosi nel fango nero e putrido.
Adesso, nascondendosi sotto un costone di roccia sporgente.
E restare immobili. Per ore, ore ed ore. Ieri come oggi.
Peter Berg adatta per il cinema il romanzo dell’unico sopravvissuto alla missione, l’ufficiale Marcus Luttrell e ne ricava un war movie (del contemporaneo filone mediorientale) di tutto rispetto.
I punti di forza sono da ritrovare nella scelta di una direzione che sposa sapientemente riprese panoramiche (del teatro di guerra) ai campi stretti, alternando piani medi a frequenti primi piani, fino a concentrarsi sui dettagli del sangue copioso che riga i volti provati, dei corpi trivellati dai proiettili, delle ferite aperte, della carne trafitta da schegge di varia natura. Frequente l’uso della camera a mano, a tallonare i nostri ‘fab four’ -che un efficace incipit provvede a renderceli simpatici e rassicuranti fin da subito-, a fargli sentire il suo fiato sul collo per tutto il loro ultimo definitivo viaggio nell’inferno in terra, insinuandosi tra le pieghe delle giovani amare stravolte espressioni facciali. E leggerne paura, rabbia, dolore, caparbietà, follia, rassegnazione. E ancora un ultimo sorriso.
Ritmo serrato con picchi di tensione in almeno un paio di momenti.
Presente una certa dose di inverosimiglianza, tipica del genere, funzionale per spettacolarizzare il racconto in atto, enfatizzandolo. Come l’applicazione del ralenti, a scandire quelle fasi, in realtà repentine, di dipartite assolutamente tragiche, avvenute in solitaria, distaccate dal gruppo. O i gustosissimi ruzzoloni giù da quelle montagne della morte, che chiunque, tranne naturalmente i nostri eroi, ci sarebbe rimasto. E nel caso si fosse rotto per intero le ossa del corpo e del cranio rimanendo ancora in vita si sarebbe dovuto ritenere miracolato.
Non manca sul finale ben congegnato, capace di non far scemare la tensione quanto piuttosto di rinnovarla, mantenerla ulteriormente alta, un autointervento chirurgico di fortuna che alla lontana fa ricordare quello famoso -veramente scult- visto in Rambo III (la scena del proiettile).
Ma qui l’aderenza al reale è fortemente presente nonostante si tratti di finzione.
A sottolinearla, insieme all’ambientazione e alla fatica e sofferenza davvero sentite, l’ottimo lavoro sul sonoro, che ci riporta intatti i rumori esterni mentre amplifica fino a renderli anche a noi percepibili quelli ‘interni’. Riuscendo a descrivere il senso di straniamento, di confusione, la perdita quasi totale della coscienza a cui un uomo ridotto in fin di vita può arrivare.
Ma anche i limiti idiomatici. L’impossibilità di comunicare verbalmente è un punto che non viene trascurato, bensì affrontato e risolto attraverso l’uso spontaneo del linguaggio universale del corpo. Dove non possono le parole può lo sguardo, la mimica, un gesto gentile, un abbraccio.
E ancora, la presenza di autoctoni buoni e non solo di afghani terroristi: gente di piccoli villaggi che si arma per combattere e resistere alla furia dei conterranei talebani.
Il film di Peter Berg mostra il punto di vista americano.
Per quanto obiettivo nella narrazione degli eventi, alla fine tifa per la metà occidentale del globo. Si finisce con l’empatizzare in maniera a dir poco naturale (come consuetudine vuole) con questi 4 marines allo sbaraglio, tutti casa chiesa ed esercito.
Certamente, dopo aver visto Lone Survivor simpatizzeremo ancora di meno per la restante metà del globo.
Da vedere.
3 stellette 1/2
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