Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Il film nasce da due momenti diversi: circa tre anni fa, insieme agli studenti del suo laboratorio (vedasi anche www. Bobbiofilmfestival.it) M. Bellocchio scoprì il carcere abbandonato dell’abbazia di San Colombano a Bobbio (che ricordi! Mi ci imbattei al liceo, per ritrovarla poi negli anni universitari stendendo un misero trattatello sulla migrazione dei monaci irlandesi sul continente e come sfuggire all’aura di santa combattività di San Colombano, tra l’altro, nome di un paesello nella landa bergamasca?). La materia parve golosa: da una serie di piccoli progetti si sviluppò un idea concreta: e se uno qualsiasi come Manzoni, e aggiungici Eco, non ebbe miglior pensiero che ambientare in luoghi chiusi e misteriosi una serie di delitti, che può fare Bellocchio se non altrettanto? Vada dunque per la monaca di Bobbio! In un colpo solo, servita su un piatto d'argento la critica/condanna ad una Chiesa cattolica cieca, malvagia, oscurantista e un guazzabuglio di sentimenti umani in cui il pruriginoso desiderio sessuale insieme alla necessità di comprensione intellettuale dovrebbero farla da padrone. Più tardi, assai vicino all’oggi, l’idea di un collegamento alla contemporaneità: necessaria, in fondo, per concludere un’opera che vuol dire altro dalle sue premesse. Anche perché le premesse scarseggiano di interesse e novità. La sceneggiatura della prima parte è una seduta psicanalitica dove, ennesimamente, si ritorna al tema del suicidio del fratello gemello. Lo si fa, purtroppo, avvalendosi della interpretazione di Pier Giorgio Bellocchio che ha l’espressività di un sasso del muro di cinta dell’abbazia. Di quello, presenta anche il colore: grigio. Per cercare di animare un soggetto sonnolento ed del tutto egocentrico si introduce, anche intelligentemente per carità, il tema della attrazione impossibile. Dell’istinto e del peccato. Peccato che il peccato non si veda da nessuna parte però! e anche un bacio inaspettato e tragico (quello tra Benedetta e Federico per intenderci) non è che una rondine che non fa assolutamente primavera. I sentimenti in questione, più che mai intimi ed universali, abbisognerebbero di lacrime e sangue. Invece qui è del tutto evidente la difficoltà, quasi l’impossibilità, che si riesca a tirar fuori un’espressione anche contenuta e repressa dalla faccia esangue del protagonista. Per non creare inutili e fastidiose discrasie (M. Bellocchio il cinema lo sa fare, ops, forse, sospetto: lo sapeva fare) ecco che anche la co-protagonista è allineata alla qualità generale, relegata in un ruolo musone. Il confine tra “rigida direzione degli attori” (come giustamente segnalato dall’utente Cantagallo) e “rigidità degli attori” è sfumato. Tutto il resto, non è altro che contorno incomprensibile mascherato da un simbologismo spiccio: le due sorelle “buone cristiane” che non si capisce perché siano lì e che cosa vogliano esemplificare (a parte un ruolo per A. Rohrwacher ovviamente, per altro, qui opportunamente sotto tono. E, a parte il riciclo della sala da pranzo); i monaci sadici ed inutili, le novizie che sono proprio una grande bellezza!; la fotografia buona, nel crepuscolo sul borgo come nella scena notturna al fiume o nella brillantezza dell’azzurro delle acque ma che non può fare tutto da sola; un sonoro irreale ed anacronistico che si mantiene su toni equilibrati quando nulla può essere equilibrato in un tempo ed in un luogo di silenzio totale, dove il silenzio è denso quanto il rumore, che in quel silenzio si amplifica e rimbomba; una colonna sonora risibile che aumenta il volume al primo canto gregoriano e che “sorrentinamente” mescola sacro e profano, solo che lo fa goffamente e senza una direzione precisa (perchè manca l’apporto del regista, cavoli! Non è lavoro per Bellocchio. Bellocchio fa altro. E allora perché fa questo?), se non il malcelato fine di riempire i vuoti ed interiorizzare sensi che peccato si trovino! Inquadrature più da melodramma televisivo (molto meglio “La vera storia della monaca di Monza” che almeno ci stavamo G. Mezzogiorno e S. Dionisi!) che da film d’essai: abbondanza di primi piani drammatici, e spesso una sorta di subalternità rispetto alla fotografia. Che rimane, seppure un po’ scontata (il Seicento Caravaggesco non l’aveva pensato nessuno!) oggettivamente il dato tecnico migliore.
Se la prima parte lascia lo spettatore tiepido, ma comunque ben disposto verso lo sviluppo finale, la seconda fa proprio accapponare la pelle. Dichiara il regista: “Non mi sono preoccupato di costruire, per questo film, un’architettura drammaturgica assoluta e perfetta. La libertà è lo spirito di questo film“. Ohibò, ma da quando la libertà è anarchia? Verrebbe da chiedersi. Passato e presente sono appiccicati insieme con la colla stick: i due elementi si staccano ancora prima di aver finito il lavoro. Il comune denominatore resta Bobbio, ma, a parte una ovvia omogeneità geografica, delle premesse sopra dette non resta traccia nei successivi cinquanta minuti: desiderio, attrazione, colpa, redenzione, costrizione, ribellione e libertà sono sostituiti in fretta e furia con un predicozzo social-economico-politico, a dir poco, fuori luogo: "Ci voleva Marco Bellocchio per farci capire tutto dell'Italia di oggi e di sempre con un dialogo tra un dentista e un suo paziente." (F. Ferzetti "Il Messaggero"). Ahi, ahi, ci voleva proprio lui, per lanciare strali a destra e a manca contro la corruzione di una provincia fatta di piccoli e grandi approfittatori sul filo della disonestà, contro la staticità di un sistema che perpetra sé stesso: di un mondo piccolo e antico che si affanna per mantenere uno status quo di privilegi acquisiti: di giorno chiuso in camera a rimuginare il passato e la sera in giro ad annusare la puzza della paura e del sospetto. Orbene: bei discorsi, validi per i nemici: per gli amici, ribadiamo, demagogici e superabili. Ecco dunque collocati sotto le luci dei riflettori figli inespressivi, fratelli disorientati e figlie impresentabili interpretativamente parlando. La sceneggiatura viene forzata oltre ogni limite per infilarci dentro in qualche modo Elena Bellocchio. Le si crea un personaggio ad hoc, a cui non sono fortunatamente assegnate battute (mi pare l’unica, atroce, di richiesta di “selfie collettivo”al vecchietto) perché M. Bellocchio il cinema lo sa fare, ops, forse, sospetto: lo sapeva fare. La presenza scenica è inesistente, estetica stiracchiata. Nessuno, nemmeno il padre, sa bene cosa farle fare e se lei ne sia in grado: il suo ruolo resta così sospeso sul nulla. E per intorbidire le acque ecco che si butta nella mischia un pazzo (insopportabile Timi), una non-vedova allegra, un incerto guardiano, uno spassoso dentista. Un russo che russo non è, e l’accento è inequivocabile, e per forza, l’attore è ceco! (ma ci si salva in extremis, forse, russo non era quel personaggio, solo un truffatore da quattro soldi. O forse no?). I dialoghi lapidari reggono, grazie certo all’apporto di Roberto Herzlitzka, Il quale cerca disperatamente di dare spessore ad un soggetto scritto male e, da splendido professionista qual è, a volte ci riesce pure. Ma le domande senza risposta, le falle ed i bubboni si affollano: perché ritirarsi nelle carceri di una abbazia mezza diroccata invece che starsene a casa propria? Colpa della moglie rompiscatole? Vabbè! Le si paga un appartamentino a Tenerife ed è subito fuori dai piedi! Perché uscire solo di notte, quando vampiri non si è? Magari non lo si è ma lo si crede; e allora, dove la psicosi personale? Quali le finalità precise del comitato, quali le armi? Perché il veliardo canta “Tapum” che di certo non ha combattuto la Grande Guerra né quel canto appartiene alla sua tradizione padana (è assai più montano, lo giuro! Forse pure stato scritto dalle mie parti), che fosse stato alpino? ma allora, come dove quando? Com’è che una cameriera si trova improvvisamente attorniata da tante amichette, ed invece di sgobbare servendo ai tavoli si mette a cantare “Torna a Surriento” manco fossero tante reginette di bellezza di Miss Italia (non posso non citare ancora l’utente Cantagallo) appoggiate al pianoforte di turno, canzone che ovviamente conoscono tutte a memoria ,nel testo ma anche negli accordi, da buone napoletane (ma non erano emiliane?), mentre il russo marpione si aggira con un lupo nel pollaio?
Ma l’Italia proprio non va! Sentenzia M. Bellocchio, che cita pure Gogol’ per non farsi mancare niente (che è autore raffinatissimo). Tutti arraffano l’arraffabile, nella legalità o nella illegalità, seguendo un proprio tornaconto personale. Sia grande, o piccolo. Tutti appunto, ma proprio tutti, anche chi pare inequivocabilmente prigioniero di quel"familismo amorale" che critici più esperti di me hanno ravvisato in questo lavoro (le fonti sono rintracciabili in rete)
Nel disagio oramai imperante, mezzo addormentato e mezzo arrabbiato, lo spettatore è rigettato indietro nel Seicento dove la “storia” della monaca di Bobbio viene recuperata in extremis per una risoluzione frettolosamente positivista, con una trovata estetica alla Sorrentino o se si vuole, alla Garrone de “Il racconto dei racconti (La scelta è multipla). La bellezza squarcia il buio dell’oppressione clericale esattamente come i fari delle volanti la notte della corruzione, dei nemici si intende. Un eterno femminino svelato inneggiante alla sensualità come confine di libertà, fino ad ora mai neppure sfiorato, salta fuori dal cilindro come il coniglietto spaventato dal cappello di un mago di quart’ordine ed è trattato con una filologia estetica insensata: chiamalo Seicento ma sembra piuttosto 2015 - sfilata di Victoria’s Secret, senza la materia prima basilare però, cioè la biancheria!
Tutto si sa, finisce a tarallucci e vino in Italia. E per fortuna che è così! Altrimenti come si riuscirebbe a far lavorare certa gente: attori incapaci, critici non seguiti, figlie di papà loro, organizzatori di festival che non contano quasi più nulla, maestranze che si arrabattano e se va bene lavorano non in regola e via con la lista? “Sangue del mio sangue” infastidisce, forse più di altri lavori generati prodotti e distribuiti con le medesime regole, proprio per la presunzione smisurata che sprigiona da ogni inquadratura. Bellocchio non sarà un caso umano peggiore di tanti altri su e giù per lo stivale, in questo circolo ristretto che si chiama cinema italiano. Ma certo, da qualche parte bisogna cominciare. Ed io suggerisco di farlo ribellandosi, personalmente e pubblicamente, partendo dal raschiamento del fondo, che mi pare sia stato qui toccato: perché quando è troppo, è proprio troppo. Ed il dispiacere e la rabbia, più che mai dei cinefilo affezionato, sono tanto più persistenti quanto il ricordo fulgido di Ei fu Regista. Al passato remoto, da quanto si può vedere qui. Sperando, che la sentenza per cui al peggio non c’è mai fine non sia proprio così vera.
*** Recensione edulcorata
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