Il surrealismo è lo stile più difficile da rendere al cinema, poichè richiede un lavoro su luoghi, oggetti, parole e persone che se da un lato sono presi dalla realtà oggettiva (quindi non deformati, non anomali di per sè), dall'altro sono messi fra loro in un insieme di relazioni che prescindono dalla psicologia seguendo invece dinamiche oniriche ed irrazionali. In pochi sono riusciti ad elaborare una vera e propria estetica surrealista, in quanto il rischio di cadere nel ridicolo involontario è sempre dietro l'angolo. Per evitarlo, è necessario un disegno coerente, idee forti: una "poetica" insomma. C'è voluto un Vigo, un Bunuel, un Lynch, un Abuladze, un Ferreri...e un Bellocchio. Ma quello dei "Pugni in tasca" e di "L'ora di religione"; non quello delle ultime uscite. Quel Bellocchio sapeva servirsi di un peculiare, spurio surrealismo con onestà ed efficacia, poichè era la strada a lui più congeniale per articolare il suo discorso (complesso ma lucido) sull'uomo stritolato dalle istituzioni borghesi (siano esse la Famiglia o la Chiesa o altro).
Questo "disegno" manca del tutto in "Sangue del mio sangue", che scivola rovinosamente nella palude del non-senso, del caos gratuito, dei personaggi che brancolano nei buio di una sceneggiatura farraginosa, delle tematiche accennate e subito abbandonate. Anzitutto, il film è diretto male, malissimo, senza convinzione, senza linee guida (fossero anche sotterranee, implicite, svianti: qui invece mancano proprio). La prima metà vorrebbe forse essere straniante nel suo anti-storicismo, ma purtroppo risulta solo sciatta (il cavaliere secentesco che, invocato da due suorine, risponde con un rozzissimo: "Eeeh?! Aaah!!"...per non parlare dei dialoghi degni forse delle peggiori fiction in prime time su mamma Rai): forse Bellocchio cercava l'ironia e in un certo senso è riuscito a mettere in evidenza le assurde logiche che regolano il diritto clericale. Il problema è che, oltre alla macchinosità e allo scarso senso del ritmo che avvilisce questa prima parte, si notano incertezza e confusione nella mano di Bellocchio, indeciso se seguire le opposte vie di un cinema indignato e classicamente psicologico o di una provocazione irrazionalista, impulsiva. Il risultato è un cocktail insapore, che ci lascia in consegna una sbiadita figurina (il pavido cavaliere Federico, che non sa nemmeno quello che desidera) e una vittima del dogmatismo cristiano (Benedetta), entrambi per di più afflitti da due interpretazioni tremende.
La seconda parte, ambientata nel presente, avrebbe dovuto dare una sterzata verso il grottesco. Magari...Si notano subito invece la mano pesante e imbarazzata di Bellocchio nel campo della commedia di costume (del filone "fantastico" in questo caso, secondo una illustre tradizione italiana che vede forse nel Pietrangeli di "Fantasmi a Roma" la sua vetta espressiva), la scarsa brillantezza, l'inesistente gestione dei tempi comici. Ma oltre ad una regia indecorosa, si palesano qui tutti gli orrori di una sceneggiatura presuntuosa nell'accatastare figure e situazioni caratterizzate da una bizzarria fine a se stessa, mai fertile, mai problematica, mai profonda, mai capace di far accettare allo spettatore la sospensione dell'incredulità. A quanto si chiedeva @Cantagallo all'inizio della sua recensione, mi sento di rispondere affermativamente: il secondo tempo di "Sangue del mio sangue" vaga dalle parti del più recente ed irricevibile Sorrentino. Dove voleva andare a parare Bellocchio con questo intruglio di vampiri, fantasmi, miliardari russi, burocrati e sconcertanti discorsi sull'attualità che si farebbe fatica ad accettare anche in un bar o sul treno?!?! Qual è la ratio di tutto ciò? Qual è il senso di un delirio di trovate strampalate che mai, mai, mai si fa allegoria del reale, mai coinvolge lo spettatore, mai si avvale di espressive soluzioni estetiche?
Com'è possibile che ad un animale di cinema come Bellocchio non sia venuto in mente di creare alcun rimando, tematico o formale, fra la prima e la seconda parte? (se non nel raffazzonato finale che pare voler decretare, così su due piedi, arbitrariamente, la vittoria della gioventù/bellezza/sensualità sulla vecchiaia/bruttezza/oppressione, auto-citando fra l'altro il finale utopistico di "Buongiorno notte", di ben altro spessore e forza emotiva). Ad esempio, nella prima parte c'era l'interessante espediente del "quadro nel quadro" (la finestrella da cui Benedetta, murata viva, guarda verso l'esterno, in soggettiva). Una bella idea stilistica: ma perchè non trovarle una "rima" nella seconda parte? Stesso discorso per i personaggi. Non c'è un ponte che colleghi le due parti, non c'è dialettica. Se penso che un film mille volte più anti-narrativo di questo, ossia "Post Tenebras Lux" di Reygadas, spernacchiato dai più, si fonda in realtà su tutto un sistema di rimandi interni, sia estetici sia tematici...Qui l'unico filo rosso che si potrebbe rinvenire è forse quello di una generica satira della burocrazia: le procedure adottate ai tempi dell'Inquisizione e quelle della società moderna sono entrambi sistemi sbagliati; i rapporti sociali si basano in ogni caso sulla bieca contrattazione, sul compromesso. Ah beh...
Si potrebbe scrivere ancora per ore, biasimando un cast di impresentabili (a parte Herlitzka e il cammeo di Timi, nei panni del "pazzo", altro personaggio pretestuoso, completamente avulso dal contesto, con la sola funzione di auto-citare ancora una volta il passato del regista) e alzando almeno un sopracciglio per il pessimo soundscore; o chiedendosi dove sia finito non tanto l'autore lucido e potente di "Vincere" (non si può avere la luna!), ma almeno quello inconcludente ma creativo del "Regista di matrimoni" o, viceversa, quello lineare ma robusto di "Bella addormentata".
Invece mi piacerebbe chiudere con una riflessione, magari inopportuna, ma senza polemica. Bellocchio ha avuto una parabola simile ad un altro grande vecchio del nostro cinema, Ermanno Olmi. Entrambi autori di importanti film degli anni 60 e 70, poi dati per finiti negli 80 e 90, sono risorti nell'annus mirabilis 2002 con i capolavori "L'ora di religione" e "Il mestiere delle armi", che hanno dato il via alle rispettive rinascite. Da quel momento, hanno entrambi realizzato anche alcune opere "strane", irregolari, che trattavano temi alti con modalità bizzarre. Film come "Il regista di matrimoni" e "Sangue del mio sangue" per il piacentino; "Centochiodi" e "Il villaggio di cartone" per il bergamasco. Generalmente, la critica ha assolto Bellocchio quando non ne ha addirittura esaltato l'estro visionario; ad Olmi invece non è stato perdonato l'aver voluto accettare la sfida dell'irrealismo (e giù pernacchie...). Ora, dato che è lampante che, se c'è qualcuno dei due che ha dimostrato di avere maggior adesione alla realtà sociale (e quindi maggior capacità di rifletterla e trasfigurarla con lo stile, senza però travisarla), questo è senz'altro Olmi (basterebbe citare "Il posto" del lontano 1961), come conferma l'assoluta mancanza di "polso della situazione" (=avere una vaga idea di cosa sia l'Italia del 2015) da parte di Bellocchio, palesata in quest'ultima fatica, e conoscendo la storia (anche politica, in varia misura) dei due autori, non è difficile vedere in questa disparità di trattamento un evidente pregiudizio ideologico. Sia chiaro: Bellocchio non è un radical-chic, almeno non nei suoi film. Il fatto è che anche la critica, talvolta, in buona fede, usa i famosi "due pesi per due misure".
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