Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Il mondo s'è fermato a Bobbio. Il tempo, pure. Sospeso in una pesantissima, opprimente nera nuvolaglia premonitrice/ammonitrice da un anemico Marco Bellocchio in vena (esangue) di boriose disse(rta)zioni del mondo-vampiro, delle cose che (non) cambiano (mai), del tutto e dell'universalità degli psicodrammi nei microsistemi e delle sistematiche umane piccolezze (nonché del codice genetico: mai titolo fu più azzeccato, mai). Funebre elogio di un pensiero/dogma illuminante illuminato da un'altissima concentrazione di - e del - sé, Sangue del mio sangue si fa verbo e verboso esercizio (t)ematico di stile, nei modi, nella rappresentazione, nella messinscena, nell'inquadrare un Pier Giorgio Bellocchio ch'erra accigliato e pen(s)oso tra ultradimensioni e tragedie e toccate e fughe nel grottesco. La prima parte, corposa quantunque priva di corpo e scopo, scorre, greve e solenne - soccombendo come persona incatenata immersa nelle acque -, tra mo(t)ti e (d)istanze prospettiche del sentire religioso, tra (m)isteriche sante inquisizioni e teatrini dell'assurdo aventi personaggi-manichini con la faccia inquieta di chi deve espiare chissà quali peccati, tra le pieghe/piaghe putrefatte di una stori(ell)a-liturgia nata dipartita e momenti-chiave dilatati per vedere l'effetto che fa. Raggiungendo il nadir (dello scult ma anche del nonsense imbellettato da folgorazione dell'intelletto) nella scena onirica accompaganta dalla cover angelica(ta) di Nothing Else Matters dei Metallica (riproposta nel finale) e nel casto (interrotto) threesome che vede protagonisti le pie sorelle Alba Rohrwacher-Federica Fracassi e il rigido Bellocchio jr. Una mistica misticanza dal sapore presuntivamente a(ute)ntico, un racconto mortifero di preti, suorette e marchi del Maligno, un archetipo elevato a monito che dal remoto parla/guarda all'oggi affinché l'oggi impari. Amen. Ma, innanzitutto, un (vuoto) contenitore di una seconda parte più contenuta però emblematica, centrale del pensiero del demiurgo/becchino: stesso posto, diversa collocazione temporale. Nell'attualità, mentre ritroviamo alcuni volti della novella conventuale comparire in altre moderne vesti, uno spettro dissanguato s'aggira per vicoli e notturni bobbiesi: no, non è il conte-vampiro Roberto Herlitzka, morto-vivente scomparso volontario e a capo di un fantomatico comitato per la salvaguardia cittadina, ma il senso ultimo del film stesso. Contornato da figure ridicole (il pazzo Filippo Timi, la moglie del conte) in contesti e scenette e quisquilie dalla (paludosa benché sterile) sostanza satirica-parodica - tali che pare di stare dentro una vanzinata d'autore -, il senso risiede, banalmente, nel dialogo tra il conte e il dentista (e nella successiva riunione del comitato). Un chiacchiericcio con punte d'ironia che spazia da grandi temi (?) a piccoli problemi del quotidiano (i finti invalidi, la crescente richiesta di fare fattura, le beghe paesane), ma sempre confinato in un provincialismo che è stat(arell)o della mente e in forma di tumida lezioncina morale: l'abbiamo capita (ancora) la litania bellocchiana sull'umana miseria, sulla società, sulla politica. Subita la visione manichea - non nobilitata bensì appesantita dai densi toni scuri della fotografia di Daniele Ciprì -, subìto il terminale "satanico" coup de théâtre (la benedetta maledetta e nuda, i grandi vecchi esanimi) sulle note del citato canto religioso metallico, non restano che i titoli di coda per mettere fine a cotanta elegante lettura del tutto sangue del sangue del nulla.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta