Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Edificare un'intera struttura spaziotemporale che renda conto di un confronto costruttivo fra le frustrazioni del passato e del presente è di certo stata una scelta secondaria, in Sangue del mio sangue, rispetto alla scelta dei luoghi e delle atmosfere, delle suggestioni insomma che rendono quasi mitica la storia dei tre personaggi protagonisti, la splendida giovane Benedetta che viene accusata di avere indotto in tentazione Don Fabrizio, Federico fratello di Don Fabrizio che diviene succube del fascino libertario di Benedetta, e il conte - l'"ultimo vampiro" di uno dei precedenti titoli del film - che avverte il degrado del presente come una forma ancora più sottile, fastidiosa e invisibile di quello del passato. E possiamo definirla " scelta secondaria" perché giunta cronologicamente dopo che Bellocchio aveva esplorato le vecchie prigioni di Bobbio e vi aveva immaginato di realizzare un cortometraggio che prendesse le mosse dal destino finale della manzoniana monaca di Monza.
Lanciando ora un'occhiata alle più interessanti figure mitologiche legate al tema della famiglia (la sepoltura del fratello di Federico, in contrasto con il desiderio della passione, possono senza dubbio rievocare i dilemmi dell'Antigone sofocliana) ora ai temi della corruzione e della malafede fondamentali in Gogol per esempio ne L'ispettore generale, Marco Bellocchio attinge al suo mondo e al suo modo di fare cinema per lasciar trapelare il lato più grottesco e assurdo delle cose. Il regista di Bobbio non ha mai avuto un piglio realistico, né però si può dire abbia mai cercato di vedere le cose dal punto di vista dei personaggi: già dai Pugni in tasca, fino anche a Buongiorno, notte, Bellocchio incarna col suo sguardo l'atmosfera fondamentale della situazione, della trama, quella di cui è normalmente innervato il tessuto relazionale fra i personaggi. In questo caso la sfida è quella di colmare le distanze fra due ere molto distanti, e nonostante sia questo l'aspetto che può apparire più debole (com'era difficoltosa la gestione della polifonia in Bella addormentata), in realtà diviene esso stesso sfida allo spettatore, che ritrova personaggi e situazioni sia ora sia allora - figure vampiresche di non morti che non esistono più - come a dire che le dittature del pensiero e le assurdità del reale, seppur addolcite, non muoiono mai.
Affidare a riferimenti così alti tematiche così apparentemente semplici può rappresentare a buon ragione un rischio per Bellocchio, ma in Sangue del mio sangue l'afflato è così profondamente personale da commuovere, e rivelare un nuovo modo di guardare il mondo, spiazzante e mai edificante. Il tema della famiglia infatti torna sempre, come torna quello di un'Italia invivibile in cui viene castrata la libertà, o viene addirittura disturbato il sogno dei morti. Il conte, interpretato enormemente da Roberto Herlitzka, funge proprio da filtro grottesco nello sguardo alla pochezza che ci circonda tutti al giorno d'oggi, e diviene esso stesso - novità assoluta per il regista emiliano - occhio dell'autore e del regista: non tanto di Bellocchio in sé, quanto di un punto di vista che si muove al di qua e al di là, prima e dopo, dubbioso e interrogato sul significato della felicità - della bellezza. Si pensi poi al dialogo, già cult, fra il conte e il dentista: il legame con la realtà non viene mai dimenticato da Bellocchio, ma ha uno scopo collaterale. L'intento è di rappresentare il pudore di un'umanità alle prese con piccoli barlumi di libertà, e che possiede come unica assurda alternativa al soggiacimento mentale la ribellione inerte (Benedetta) o il miracolo (il finale).
Ed è perfettamente inquadrato, questo pudore di essere felici, nelle immagini delle due sorelle Perletti (Alba Rohrwacher e Federica Fracassi), sempre indecise se cedere o meno alla passione. Così come certe sequenze, in particolare quella dell'onirica immersione di Don Fabrizio nel fiume sulle note di un rifacimento di Nothing Else Matters, rivelano la straordinaria voglia di conferire un senso archetipale, mitico, al rapporto familiare (Federico è interpretato da Pier Giorgio Bellocchio). In questo modo, lasciando spazio ai suoi stilemi più grotteschi, ilari e quasi anarchici - notevoli, considerando la lunga carriera del regista - Bellocchio crea un'opera densissima, apparentemente superficiale, che sa giocare con il non detto e il non mostrato, e che si rassegna all'assenza della spontaneità nel corrotto essere umano.
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