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Pleasure Boy Komola

Regia di Humayun Ahmed vedi scheda film

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La recensione su Pleasure Boy Komola

di OGM
8 stelle

Nel 2012 anche il Bangladesh ha inviato un film agli Academy Awards. Un’opera originale, di respiro storico ed umano, e davvero scritta col cuore. Alla metà dell’Ottocento, in una zona del Bengala orientale, la vicenda di un ragazzino di campagna riassume i principali mali del mondo: la miseria, i dislivelli sociali, la disperazione dei deboli a cui, sul versante opposto, risponde l’incivile arroganza dei potenti. Jahir deve vendersi a Chowdhury, un ricco latifondista, per poter aiutare la sua famiglia a tirare avanti. Il suo sacrificio è immane, ed è ancora più doloroso per sua madre, che si trova costretta a consegnarlo con le proprie mani ad un individuo rozzo e cinico. Per il ragazzino  tutto inizia come un gioco: si veste da donna e si trucca il viso, e poi si mette a ballare al suono delle melodie del gruppo musicale diretto dal padre, del quale fa parte anche un maestro di danza. Le canzoni sono allegre ed orecchiabili, le parole traboccano di poesia, ma per Chowdhury non è questa la principale fonte di piacere. La bellezza efebica di Jahir è una tentazione irresistibile. Poterlo avere tutto per sé, nell’intimità, è il vero motivo per il quale lo paga, ospitando gratuitamente, presso la sua lussuosa residenza,  lui e il suo complesso, per ben tre mesi.   Questa truculenta fiaba si svolge per intero tra le mura dorate di un palazzo principesco: un luogo che potrebbe far sognare, mentre in realtà è abitato dalla cupa magia della superstizione e dell’oscurantismo religioso. Il rigore e la ricercatezza sono le espressioni grottesche di un ambiente tanto esclusivo quanto sentimentalmente sterile, in cui la forma è come un belletto posto sul viso di un mostro: avidità, gelosia, superbia sono peccati che affliggono tanto i padroni quanto la servitù, contaminando le loro vite con le ebbrezze artificiali procurate dai vizi. Tutto appare malato, di barbarie o di tristezza, mentre l’unica gioia vera, quella proveniente dall’arte, riesce a spezzare solo temporaneamente il tetro incantesimo, richiamando la nostalgica eco di quel paradiso perduto che si chiama naturalezza. La grazia giovane e genuina di Jahir, che interpreta la fantasia creatrice in maniera tanto semplice e seducente, viene data in pasto all’orrore: la bocca del lupo, in questo caso, è quella di un uomo e di una donna che non sorridono mai, nemmeno quando dovrebbero divertirsi. La morte dell’anima insegue quella del corpo. La belva che morde non ha nemmeno più la forza di mostrare i denti, e i suoi delitti avvengono di nascosto e nel silenzio, con le urla della vittima sovrastate dal disordinato rumore dell’indifferenza. Un variopinto velo di colore bollywoodiano copre, con discrezione, le forme selvagge di un dramma che affonda in un realismo raccontato con il linguaggio diretto dell’azione,  però mescolato ai toni soffusi di un fangoso acquerello: il ritratto straniante di un tempo remoto e dimenticato, eppure sempre presente, con il suo amaro contenuto di eterna, invincibile ingiustizia.

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