Regia di Umberto Lenzi vedi scheda film
Una scena, pochi minuti di un orrorifica rappresentazione cannibalica, tanto è bastato ad Umberto Lenzi per passare alla storia come l’inventore (il padre) di un sottogenere tutto made in Italy che a partire dagli anni ‘70 divenne non solo molto popolare e di successo, ma anche specchio di un discorso politico/sociale che rifletteva i disagi di un’intera generazione.
Tutto merito di Lenzi?
Direi proprio di no, a volte il destino di un film, la sua fama all’interno di un filone narrativo ben preciso può essere deciso da elementi esterni, da eventi casuali, magari da un po’ di fortuna, del resto il film di Lenzi nasceva con altre prerogative, un b-movie che per stessa ammissione del regista prendeva spunto dal classico Un uomo chiamato cavallo (Elliot Silverstein - 1970) e da lì partiva per raccontare la storia di un uomo civilizzato che si perdeva nella giungla birmana trovando l’amore di un indigena e il rispetto di una tribù primitiva.
Il fotoreporter inglese John Bradley (Ivan Rassimov) sbarca in Thailandia con la sua macchina fotografica, affascinato dalle bellezze esotiche del luogo e dagli incontri di lotta si lascia coinvolgere in una rissa in un bar, per legittima difesa uccide un uomo ed è quindi costretto alla fuga.
Si dirige verso i più inospitali e isolati territori interni, guidato da un giovane del posto affronta la natura più selvaggia fino a quando non viene catturato da una tribù indigena e trattato come una specie di animale, dopo aver tentato invano la fuga si conquisterà il rispetto dei nativi e l’amore della bella Marayà (Me Me Lay).
I riferimenti al film di Elliot Silverstein uscito due anni prima sono chiari e indiscutibili, la storia è firmata da Emmanuelle Arsan (autrice del famoso personaggio letterario/cinematografico di Emmanuelle) e sceneggiata da Francesco Barilli e Massimo D’Avack, il tema principale è quello dell’uomo che perde contatto con la civiltà per ritrovarsi in un ambiente ostile e barbaro, obbligato a convivere con questa nuova realtà finirà infine per accettarla, diventando lui stesso parte integrante di un nuovo sistema naturale.
Il percorso di trasformazione di Bradley è identico a quello del personaggio interpretato da Richard Harris ne Un uomo chiamato cavallo, la scena della prova del dolore viene riproposta da Lenzi mettendo Rassimov in una specie di rozza macchina di tortura e facendolo colpire con delle frecce dagli indigeni, nonostante l’evidente operazione “ricalco” la prima parte del film resta tuttavia abbastanza coinvolgente.
E’ chiaro che un titolo come Il paese del sesso selvaggio presuppone una rappresentazione erotica molto accentuata, in realtà a parte qualche scena di nudo e un paio di accoppiamenti abbastanza casti il film propone più romanticismo che erotismo, tutta la parte sentimentale con i giochi amorosi tra Bradley e Marayà affossano lo spirito avventuroso della pellicola che riprenderà vigore improvviso grazie alla famigerata sequenza cannibalica.
Una breve scena che cambia il destino di un film e che nel suo contesto, ovvero quello dei cannibal-movie, lo innalza ad opera fondamentale e anticipatrice, senza dubbio Lenzi è molto bravo nel proporre un racconto crudo e violento, nel descrivere la vita quotidiana dei selvaggi fatta di riti sanguinari e di uccisioni gratuite, sono presenti in forma embrionale quelle caratteristiche di violenta messa in scena che Ruggero Deodato nel successivo e più potente Ultimo mondo Cannibale porterà a definitiva consacrazione, alzando di diverse tacche l’asticella del mostrabile e del sopportabile.
Il paese del sesso selvaggio fu un grandissimo successo, in Italia ma sopratutto all’estero (in particolare in Germania dove venne venduto con il titolo di Mondo Cannibale), chiaramente la variante fortunata va individuata nella scena cannibalica che lo stesso Lenzi ammette fu inserita “come elemento accessorio”, un frammento estraneo al contesto che tuttavia risultò fondamentale per l’ottima riuscita commerciale del film, tanto che Lenzi fu subito chiamato a dirigere un sequel ma non si accordò per motivi economici.
Questo rifiuto diede campo libero a Deodato che definendo in modo unico il genere con Ultimo mondo Cannibale e sopratutto con Cannibal Holocaust divenne il regista che più di ogni altro contribuì alla fortunata stagione dei cannibalici italiani, una fortuna che durò circa una decina di anni e che vide all’opera registi come Sergio Martino, Joe D’Amato e Jesùs Franco, lo stesso Lenzi tornò all’opera con due film, Mangiati vivi e Cannibal Ferox.
In definitiva Il paese del sesso selvaggio è un film che si ricorda più per la sua importanza nel genere che per le sue reali qualità artistiche, che a dirla tutta non sono eccelse, pur mettendo da parte la palese operazione di copia-incolla da Un uomo chiamato Cavallo resta la deludente seconda parte dove un invadente romanticismo da romanzo Harmony penalizza parecchio un film che fino a quel momento aveva fatto dell’avventura selvaggia e della violenza la sua dimensione principale.
Voto: 6
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