Regia di Neil Burger vedi scheda film
Non diverge affatto dalle "linee guida" hollywoodiane per la conquista del box office, questo "nuovo" ennesimo esempio di prodotto per le masse (di "young adult").
Saga "letteraria" alla base - manco a dirlo bestseller (autrice la giovanissima Veronica Roth, già ascesa all'empireo delle modernissime icone pop) -, scenario post apocalittico in un futuro distopico (termini abusati ogni oltre umana sopportazione, ma così è se vi pare, e anche se non vi pare), un'eroina - bianca, giovane, bella (ma in modo del tutto e casualmente "normale") - che suo malgrado diventa capo e simbolo della rivolta contro i cattivissimi ordini precostituiti.
Date le premesse - e ci sarebbero ulteriori numerosi (s)punti di convergenza sui quali è esercizio sterile perderci tempo - il resto (storia, personaggi, contesto, "contenuti" e "messaggi", sviluppo dell'azione e dello spettacolo) è alquanto intuibile.
Dopo due minuti, appena scorrono le prime immagini di panorami (digitali) che devono essersela vista davvero brutta (eh, la guerra) e parte l'immancabile "spiegone" iniziale della protagonista, hai già capito tutto (e senza possedere alcuna virtù magica: potenza della fabbrica dei sogni di celluloide).
Per quanto autori e regista (il Neil Burger di The Illusionist e Limitless: titoli quasi profetici) vogliano far credere (nemmeno tanto, poi) di aver realizzato chissà quale cosa originale e ricca di riflessioni intelligenti.
Ossia, vorrebbero tanto stupire con effetti speciali; peccato sia soltanto la solita mortifera tiritera preconfezionata: struttura rigidissima che propone modelli - narrativi, tematici, sociali, estetici - elementari, sotto l'egida della più pura schematicità ed approssimazione, con "morale" e "valori" di sicura definizione (e definibilità). Insomma, un gioco semplice con regole semplici: non disturbare e non turbare.
Ovvero, dalla divisione in caste della società rappresentata alla castità solenne dell'eroina: l'immaginario è generico, perfettamente aderente ai canoni del target (ammiccamenti compresi), e tutto è di facile identificazione (anche visiva: ci sono i mormoni, gli homeless, gli emo-puk e così via).
Divergent segue dunque traiettorie che confluiscono in luoghi protetti e garantiti, rifugi sicuri per tentare di assurgere al ruolo di "new sensation" (impresa ardua e spietata).
Il film prevede passi codificati del genere (imprecisioni e riduzioni/risoluzioni sommarie incluse), con una storia non particolarmante brillante, una tenuta altalenante (qua e là affiorà un po' di stanchezza, che si traduce in noia per lo spettatore), personaggi di mediocre spessore e succubi di un certo caos descrittivo, l'inevitabile profluvio di sentimenti (ma almeno abbiamo evitato il triangolo: alleluia!), un finale concitato nel quale l'azione prende il sopravvento, e un controfinale "aperto" (per i possibili sequel, dipendenti dagli esiti del botteghino, anche se negli States ha iniziato col botto).
Infine, la protagonista, Shailene Woodley: pur dotata di un non disprezzabile registro drammatico, non riesce ad eguagliare il carisma e la presenza scenica di Jennifer Lawrence (inutile girarci intorno: diverse sono le analogie con Hunger Games), ma va anche detto che è penalizzata (più della collega) da regia e script di modesta entità. Altro che divergent.
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