Regia di Erik Matti vedi scheda film
Il cinema filippino non è certo popolare nel nostro paese. Il massimo esponente, o quanto meno uno dei maggiori autori dell'arcipelago asiatico, Lav Diaz, già Leone d'oro a Venezia nel 2016, è praticamente sconosciuto al grande pubblico italiano e fatica ad affermarsi, per molteplici ragioni, anche all'interno del ristretto gruppo dei cinefili. Così capita ai festivalieri di imbattersi in qualche film di Lav Diaz, di Brillante Mendoza e dei loro figli putativi, in quelle poche occasioni in cui il cinema asiatico riesce a fare breccia: i festival, appunto. Al momento dell'annuncio della line-up della mostra di Venezia non mi sono, perciò, stupito, della presenza in concorso di un film filippino. Però, come molti altri, spero, ho dovuto aprire le pagine di Wikipedia per sapere chi fosse Erik Matti. Il suo "On the job 2: the missing 8" è tra i 21 beati che compongono il concorso di Venezia78 ma io del suo autore non sapevo nulla al momento dell'annuncio. Beata (la mia) ignoranza.
Potere delle rete, mi sono imbattuto, però, nel provvidenziale cinguettio di un uccellino che a quanto pare ha avuto per anni un nido ad Udine, dal quale si è goduto il Far East Film Festival ed il cinema asiatico. Da costui ho saputo che Matti ha fatto tappa ad Udine ancor prima che a Venezia. Inoltre, felicissimo per l'insolita presenza del regista alla Biennale, il pennuto consigliava agli altri passerotti di fare la conoscenza del regista attraverso "On the job", miracolosamente disponibile in streaming su Amazon Prime Video. Il film che verrà presentato a Venezia a settembre è il "sequel", se lo vogliamo così definire. Barbera nel presentare il capitolo secondo e il suo autore ha detto: “(Matti) viene dalla serie B soft core, dalle parodie dei film di supereroi, l’horror e il poliziesco. Compie in concorso il salto verso la serie A, con una denuncia della corruzione che dilaga nel suo Paese. Un film barocco ed eccessivo che ci ha divertiti e conquistati, a cavallo fra cinema di genere e d’autore”. Così tra padrini consiglieri e padroni della mostra non ho perso l'occasione di dare una sbirciatina al film presente nel catalogo Prime.
Al primo impatto visivo "On the job" sembra un prodotto televisivo ma è ben chiaro che il contenuto è tutt'altro che adatto al prime time. Il film inizia con un' omicidio compiuto tra le vie di una caotica Manila in festa. Un cranio perforato da un proiettile, come una noce di cocco colpita da un martello, apre la finestra sui due protagonisti, il giovane Daniel ed il suo maestro Tatang. Entrambi killer, per conto di un committente senza nome che nasconde la propria identità dietro una marea di intermediari, i due uomini colpiscono su commissione con brutale precisione per poi tornare in carcere a scontare la propria pena. Daniel e Tatang escono di galera il tempo di commettere il crimine e poi, con il beneplacito della polizia penitenziaria che incassa la paghetta del sabato in cambio del silenzio, tornano dietro le sbarre dove un alibi inoppugnabile li attende. E così, un pacchetto di cicche dopo l'altro, Tatang e il suo allievo fanno fuoco sulle vittime designate salvo poi dormire sonni tranquilli nel corridoio di un carcere così colmo che ricorda il giochino "la cabina magica" di quand'ero piccolo.
"On the job" è un film di sparatorie ed inseguimenti. A tratti violento ma meno splatter di quanto la sequenza iniziale lasci immaginare, il film di Erik Matti ha ambizioni ben più alte di un moderno polar asiatico di cui non condivide per altro l'estrema violenza che normalmente caratterizza molti esempi del genere nelle vicine Korea e Giappone. Negli anni scorsi ho avuto modo di imbattermi in un paio di pellicole filippine durante le mie "notti veneziane": "Pamilya ordinaryo", un film sull'endemica povertà del paese e "Lahi, hayop" sulla cancrena purulenta della corruzione del potere. "On the job" innesca una miccia che lentamente brucia fino a far esplodere un barile di povertà e corruzione. Nel cinema filippino, dunque, sembra prevalente la necessità di raccontare un paese piagato dall'estrema povertà e dall'abuso sistemico del potere. Erik Matti approfondisce entrambi i temi, dietro la maschera di un film che solo apparentemente è di genere. Questa è l'ambizione del film che, a parer mio, si concretizza nella descrizione degli ambienti di reclusione, del dorato mondo dei politici e soprattutto nella penetrazione di ambienti familiari su cui gravano le stimmate della povertà. La corruzione morale si svela tanto nei ranghi più bassi della piramide quanto ai vertici, dove è solo la detenzione di un potere più grande che rende più efferate le ripercussioni dell'esercizio indiscriminato della forza sul cittadino. L'attenzione dedicata ai due protagonisti, da una sceneggiatura efficace, esalta pregi e difetti dei due uomini e ricostruisce il sottotesto economico e culturale che influenza le loro decisioni. Ciò consente a Matti di scandagliare altri territori. Gli infiniti problemi che agitano le Filippine non dipendono dalla povertà o dalla violenza. Esse sono l'effetto, non la causa, di un humus sociale impregnato dei vizi del singolo. In questo senso è magistrale il ritratto di Tatang che mette da parte, almeno inizialmente, ogni valore per sostenere la famiglia indigente ma poi agisce animato da un desiderio di sadica vendetta che non ammette alcuna attenuante nell'elaborazione di un processo di colpevolezza. Insomma, il regista va oltre. Parla di povertà e corruzione ma ci dice che è il singolo ad alimentarne la fiamma con le sue azioni. Il singolo crea il proprio mondo più che subirne le conseguenze. La società filippina è marcia dalla base alla punta dell'iceberg e chi nuota controcorrente ha la peggio. Ancora un altro gran personaggio, il poliziotto Joaquin Acosta, brusco, violento e sgarbato, ci dà la possibilità di tastare con mano gli effetti della corruzione sulle persone che cercano di difendere strenuamente i valori che dovrebbero fondare una società civile. Meno interessante, invece, appare il giovane e immacolato Francisco Coronel, ch, forse, nelle intenzioni di Matti potrebbe rappresentare il cittadino che apre gli occhi su un "regime" che ammeno inizialmente ha appoggiato e che cerca di conservare il proprio potere con maggiore forza e sempre maggior disprezzo per la vita umana. Un cittadino scioccamente accecato dai proclami che si ritrova a vestire, suo malgrado, i panni del bambinetto sfruttato e poi beffeggiato da poteri più grandi.
Credendo di trovarmi al cospetto di un film d'azione e dai contenuti oltremodo violenti mi sono trovato, al contrario, d'innanzi ad un racconto capace di rimestare nel fondo del calderone d'ingiustizie sociali che erano le Filippine di Benigno Aquino. Sono convinto che gli otto ricercati del secondo episodio sapranno scavare ancora più a fondo nel pantano della presidenza Duterte che nel terrore limaccioso della guerra alla droga ha fatto sprofondare (si ipotizza per difetto) almeno 27 mila morti lasciando le attuali Filippine in un inferno di paura che questo nuovo film potrebbe smascherare. Intanto, però, prima di vedere che succederà nel secondo capitolo, può essere un'idea recuperare "On the job".
Amazon Prime Video
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