Regia di Duccio Tessari vedi scheda film
“When the legend becomes fact, print the legend.”
Partendo dalla citazione alla base del capolavoro di Ford, “L’uomo che uccise liberty valance”, mi riallaccio ad un’altra citazione di Moravia che parla de “Il buono, il brutto e il cattivo” in cui dice: “In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito”.
La trama in breve:
Due messicani hanno soggiogato con il terrore un piccolo paese. Di ritorno dalla guerra di Secessione, Montgomery Brown scopre che tutti i suoi beni gli sono stati confiscati dai malviventi e per giunta la moglie, pur essendogli restata fedele, ha dovuto promettere di diventare sposa di uno dei due. Nel corso di un finto funerale però Brown e i suoi fidi sbaragliano i nemici.
Prima di arrivare a parlare del film in questione bisogna fare una doverosa premessa, lo “Spaghetti Western” o meglio il Western italiano come dice bene Moravia nella citazione di cui sopra da un suo articolo del 1967, parte dal mito del mito ovvero; se il Western è stato per l’America fin dall’inizio della storia del cinema ma soprattutto tra il ’39 e l’inizio degli anni ’60 la radiografia di una nazione o comunque il tentativo, romanzato o meno, di raccontare una nazione attraverso alcuni passaggi storici, emblematici e fondanti di un’idea di nazione che si guarda allo specchio e, spesso, manipola quello che è o che vorrebbe essere, lo “Spaghetti Western”, che nasce nel ’64, in un contesto più ampio che è quello europeo (senza dimenticare gli approcci al genere, spesso comico, già fatti negli anni dal cinema italiano) è la parodia, l’omaggio, la messa a fuoco di alcuni temi emblematici del western.
A breve arriveremo a parlare del biennio 64-65 e del film ma ci sono alcuni aspetti che vanno precisati; a sessant’anni di distanza guardare agli “spaghetti” vuol dire pensare ad un miracolo produttivo in cui in un biennio è nato un genere produttivo a parte non solo al livello stilistico e tematico, un sotto-genere che ha agito con forza aiutando ad arrivare alla sua conclusione, ormai improrogabile, il ciclo classico del western americano.
Il western americano dove aleggiavano già dagli anni ’50 una serie di tematiche che diventeranno cardine dello “Spaghetti” senza però alcuni eccessi, ma già in autori come Mann, Ford e altri, c’era la messa in crisi o la revisione di alcuni archetipi e stilemi del genere; però è con l’arrivo e il successo dei film di Leone, Corbucci e co. che Il western classico americano con un eroe monodimensionale e alcune figure a lui legate viene incrinato definitivamente e difatti qualsiasi western, forse a parte quelli interpretati da Wayne, da metà anni ’60 in poi che non abbia una variante o un modo diverso di vedere sé stesso ha ben poco successo e credibilità agli occhi del pubblico che ormai cerca e vuole altro.
Dopo questo periodo di transizione arriveranno i grandi autori revisionisti (Peckinpah, Penn), e siamo certi che questo processo sarebbe giunto a compimento comunque; ma sono gli “Spaghetti” a suggellare la fine di un’epoca ad imporre alle produzioni americane (caso unico) di adeguarsi a nuovi ritmi, stili, ad una violenza e un cinismo che prima non erano la cifra del genere. A questo processo ovviamente hanno contribuito anche i passaggi storici, i cambiamenti epocali in corso in America e nel mondo, ma va ribadito il ruolo cruciale del genere italiano.
Arrivando a Il ritorno di Ringo, si tratta del sequel di “Una pistola per Ringo” sempre di Tessari (unico sequel connesso al primo Ringo) qui aiutato da Di Leo, riformando così la coppia che scrisse insieme a Leone l’epocale “Per un pugno di dollari” capostipite di tutto il ciclo.
Si nota da subito che il film ha un budget superiore al precedente, il film è il secondo western di Tessari che aveva esordito in quel biennio fondamentale e con lui altri registi muovevano i primi passi: Leone, Corbucci, Stegani, Ferroni, Lupo, Caiano, Bava. In quei due, fertili, anni si creano le basi per un genere che a sua volta avrà tanti sottogeneri: che guardi al comico/slapstick, parodistico, gotico, con innesti di giallo, con tematiche ricorrenti o personaggi emblematici; il genere poi vedrà la sua massima espansione e riuscita nel triennio successivo.
Tessari decide di tornare su Ringo, con Gemma che qui convince a pieno donando forza alla sua maschera, e apporta una variazione al film di partenza, non c’è più la giocosità (o solo in minima parte) e il brio, ma c’è una trama drammatica che segue il viaggio di ritorno dell’eroe, guardando a Ulisse come esempio. Ringo è uno sconfitto (nonostante la giubba blu) e si porta con sé gli orrori della guerra, mentre il paese che ha lasciato ormai è in mano ad una banda di messicani. Tessari riesce così a dare un degno seguito al successo del primo film e anzi ad emanciparlo.
Ringo non è più il sorridente e irridente pistolero vestito nero, assomigliante al Joe/Eastwood del capolavoro di Leone di cui riprendeva le orme, del capostipite delle vicende di Ringo, in un film che guardava alla commedia o alla farsa. Mentre qui appunto troviamo il ritorno dalla guerra, il paese dilaniato, il suocero morto, la fidanzata che si sta per sposare con uno dei banditi, Ringo non può essere e non è più quello di prima e mostra, attraverso Gemma, la sua sofferenza.
Tutto il film è giocato su questa drammaticità e su questo cambio dell’eroe che ha anche i tic tipici dei reduci (tema centrale di molta cinematografia americana); tutto ci porta al finale avvincente a arrembante, il film nelle scene d’azione è diretto benissimo e Morricone ci regala un’altra colonna sonora da ricordare capeggiata da “Il ritorno di Ringo” cantata da Maurizio Graf, che riesce a seguire e segnare ogni scena.
Vanno ricordate alcune sequenze ed immagini che rimangono impresse, c’è intanto il colore rosso che torna spesso nel film e che anticipa certe suggestioni del giallo/thriller italiano degli anni ’70; c’è l’uso spesso di una movimento di macchina circolare che si sofferma anche sugli specchi e sulla molteplicità delle immagini. La sequenza che più rimane negli occhi è sicuramente quella di Ringo che appare, da fuori la porta, al matrimonio, con il fucile in mano, citando Ford (Tarantino se ne ricorderà in “Kill bill”).
Il Ritorno di Ringo è quindi un successo assoluto che riesce a dar forza e linfa al genere nello stesso anno in cui Leone gira il fondamentale “Per qualche dollaro in più” ma questo si sa ed è Storia.
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