Regia di Kristian Levring vedi scheda film
FESTIVAL DI CANNES 2014 - CONCORSO
Quello del 2014 è stato un Festival di Cannes all’insegna del western, con ben due opere in concorso (oltre alla presente, pure il bel film di Tommy Lee Jones "The homesman").
Si fa presto a parlare o a sproloquiare di “western crepuscolare”, ma questo cupo e glaciale The salvation ne è in qualche modo la rappresentazione definitiva, esemplificatrice, chiarificatrice.
Immigrati danesi che cercano fortuna nel nuovo continente, e quando sono ad un passo dall’averla trovata, chiamano a sé la famiglia: questa è la tattica saggia e condivisibile adottata dal colono John, che chiama a sé la bella moglie (una sosia di Claudia Shiffer) ed il figlioletto di sette anni che neppure ha mai visto.
Peccato che sulla diligenza che li deve condurre alla terra che l’uomo ha acquistato e dove sta costruendo la dimora del suo futuro, la famiglia imbatta in un duo di carogne ubriache che, eccitati dall’avvenenza della bionda consorte, finiscono per usare la forza e violentarla. La situazione sfugge di mano e John, scalciato fuori del convoglio in corsa, arriverà a raggiungere i suoi cari trovandoli entrambi senza vita. La sua vendetta sarà immediata e senza appello.
Peccato che uno dei due uccisi risulti essere fratello di un capo banda taglieggiatore spietato di nome Delarue, che prende subito così a cuore l’uccisione del proprio caro, da pretendere immediatamente una giustizia sommaria con la legge del taglione, raddoppiando il pizzo allo sceriffo della contea, e cercando con i suoi uomini e la forzata collaborazione della cittadina, il vero colpevole.
Sarà un massacro, una sfida all’ultimo sangue che coinvolgerà pure la bella e sfregiata vedova dell’assassino, donna fiera di se stessa, molto meno del marito defunto, e fiera oppositrice dei viscidi interessi che il cognato disegna sul suo conto.
Il danese Kristian Levring costruisce un western lineare e semplice, cruento e imbarbarito, narrato benissimo e illuminato da una fotografia dalle tonalità crepuscolari e lunari affascinanti e taglienti, che si riflettono magiche ed argentee sulle praterie incontaminate, interrotte qua e là da pozze oleose di combustibile grezzo che proprio in quegli anni comincerà a mettere in moto quella rivoluzione industriale (siamo verso la fine del 1800) che spingerà anche, seppur lentamente, a trovare la via per una società, almeno apparentemente, meno giustizialista e vendicativa.
Mads Mikkelsen, Eva Green, Jeffrey Dean Morgan, e non meno il vigliacco sindaco-becchino Jonathan Pryce (in qualche modo pure Eric Cantona, nella fissità immota del suo volto di pietra, consono al suo ruolo di contorno) hanno volti spigolosi, coloriti e meravigliosamente imperfetti, con le rispettive asimmetrie, cicatrici e smorfie di rimorso o di dolore, utili a comunicare il disagio e la consapevolezza che nulla, se non le proprie risorse, abilità ed astuzia, possono salvarti dalla violenza e dalle prepotenze altrui, in una società dominata dalla forza e dalla sopraffazione.
La giustizia troverà modo di soffocare il vizio, la corruzione e la viltà che consentivano ad una comunità codarda e timorosa di sopravvivere a stento, ingrassando la criminalità organizzata. Ma John pagherà a caro prezzo la propria sopravvivenza, come un eroe epico votato al sacrificio, perdendo tutto ciò per cui aveva lottato prodigandosi in una terra misteriosa, di un altro mondo, pieno di false promesse, di sogni idealizzati e fuorvianti, e di insidie reali e letali.
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