Regia di Yuri Bykov vedi scheda film
Una sperduta provincia russa dell’impero del male. Neve e ghiaccio. In un mondo in cui nulla pare officiare le apparenze, dove tutto deve andare al fondo per mostrarsi (paesaggi, strade, ambienti, anime umane), un maggiore della locale Polizia commette uno ‘sbaglio’. Innocente, per come sia nell’accadere e per quanto non ci sia compromissione e malvagità. Eppure da quell’elemento inatteso, si assomma il giudizio universale su una società che brancola nel nevischio delle paure e che si è assoggettata – all’apparenza senza alcun rimorso –, al demone di una corruzione che non lascia spazio. Né scelta.
I modelli umani che il regista (e qui anche attore, interpreta Pasha, il ‘cattivo’ della storia) Yuriy Bykov, conforma alla sua idea di ‘mondo emerso’, sono quelli classici della tragedia convenzionale; pochi personaggi a fuoco, totalmente puliti da ogni scoria di fraintendimento, mossi da passioni che si susseguono come scandite da un orologio di cifre nere (l’incipit, la violenza sulla coppia che ha perso il figlio, l’assalto alla caserma, il tentativo di insabbiare il caso), che tanto risaltano sul manto innevato. E poi una pletora di ‘agenti guastatori’, di piccole (ma piccole solo perché il regista non ha saputo apprenderne la carica drammatica) figure che si muovono a comando, che compaiono e scompaiono dalla tela e che, alla fine, tratteggiati come sono da veloci pennellate, lasciano un che di irrisolto.
E non che la sceneggiatura sia parca di minutaggio. Anzi. Il film dura quel fatidico quarto d’ora in più, che fa sì che un buon ‘produkt’ d’azione della nuova cinematografia russa, diventi solo un discreto thriller delle anime (di un paese intero, tanto grande quanto complesso come la Russia) e dei corpi (pedine di un gioco molto più universale e astorico).
Ma a cosa confrontare “Mayor” per decifrarne la qualità di scrittura?
Non è facile rispondere a questa domanda, anche se alcuni spunti di indagine ce li fornisce il regista stesso, mentre delle tracce cinematografiche – rimaste chiare, quantunque mimetizzate nel regno soffice e spietato del gelo drammaturgico – si notano qua e là, tra un richiamo al cinema americano d’impegno civile degli anni ’70 ed a certo cinema sovietico d’assalto dei vari Kabadze (“Pjatno”) o Balabanov (“Brat”, soprattutto). Ma c’è da segnare che l’arte di Bykov non assomiglia molto né al primo tipo di cinema, tanto contratta nell’azione fisica quanto espansa nel tormento interiore, e né probabilmente nemmeno al secondo, per come lo sviluppo dell’angst sia di continuo portato in contrappeso dalla coscienza di ciò che è ineluttabile e non provocato. Se, insomma, prendete ¼ del “Serpico” lumettiano e vi aggiungete proprio uno sputo della furia di Danila Bagrov, non otterrete né il gusto e manco l’odore di questo film.
Quello che invece ci può illuminare è il seguito a “Mayor”, e cioè “Durak” il film presentato proprio un anno fa e naturale erede del lavoro sulla grammatura della trama che Bykov ha, da ciò che sembra, intenzione di fare. Mentre un ‘duro e puro’ come Balabanov si intrufola (con “I also want to”, forse distrattamente premiato a Venezia tre anni fa) sul campo minato del “western in un cervello” che era stato, con risultati inarrivabili, itinerario del Tarkovskij del 1979, con “Durak” il nostro giovane regista russo sembra rivolgere lo sguardo verso la denuncia globale di un sistema cieco, sordo e muto che nulla ha dentro si sé di misterioso o di atavico. Il conflitto sociale è sgranato in una serie di azioni convergenti, di assurde prese di posizioni e di aperte faide che un qualsiasi antropologo potrebbe velocemente rubricare in una parola sola: disfacimento. Un rifiuto totale dell’astrazione e di qualsiasi formalismo, che apre le porte ad un cinema ancora più incisivo e votato al dialogo problematico con lo spettatore. “Le mie ambizioni artistiche passano per il connettersi con la gente”, ha pubblicamente detto Bykov. E qui è da chiudersi la partita.
Poco sopra si parlava di “innocenza”, e qui si vuole contestare il come questa virtù del peccato iniziale si trasformi, attraverso i dubbi che portano sempre più il maggiore Sergey Sobolev a collidere con la certezza dell’impunità del suo collega Pavel e dei suoi superiori, in una sorta di depravazione finale, compiuta con i colpi alla nuca ad una donna indifesa ed ad un uomo disarmato. Chi era ‘incidentalmente’ in torto all’inizio del film, si ritrova ad essere ‘proditoriamente’ assassino alla fine. Un capovolgimento netto di gran parte dell’action-movie di ultima generazione che, invece, fa del decorso salvifico dell’eroe o del codardo elemento di decontaminazione emotiva. Qui non c’è possibilità di giudizio, e la corsa che accompagna il protagonista ad abbracciare finalmente la moglie ed il figlio appena nato, non ha davvero nulla di lenitivo o di umanamente liberatorio. Il buio che segue l’ultima scena, quella dell’autostop del camion mentre un tramonto sanguinante invade l’orizzonte, sappiamo di certo che non cauterizzerà le sofferenze. Dei personaggi, come dell’intero film. Tanto che una mezza stella mi rimane tra le dita, e non trovo modo di appenderla sul foglio che ho davanti.
Ma nel cielo baluginante e oscuro dei fumi delle ciminiere dell’Oblast Ryazan, nessuno – siamo certi – se ne accorgerà.
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