Regia di Ritesh Batra vedi scheda film
Sorprendentemente bello, anzi di più: inconsueto e intelligente.
Incuriosito dalle recensioni positive postate sono riuscito a recuperare quest’ opera dell’indiano Ritesh Batra che, superata la prima mezzora di “adattamento”, mi ha coinvolto in un progressiva transizione da una divertente evasione a una riflessiva meditazione.
Occorre semplicemente tarare i nostri “parametri funzionali” sulla lunghezza d’onda in uso a Mumbai (e probabilmente in tutta l’India) e automaticamente scopriremo che i loro “parametri affettivi”, qualora si verifichino determinate condizioni, collimano in modo sbalorditivo con i nostri. Su questo aspetto consiste l’intelligenza del film. I primi parametri (quelli funzionali), a cui non siamo avvezzi, vertono prevalentemente su una filosofia comportamentale che potremmo definire se non strana, perlomeno “diversa”. Il maturo ’impiegato Saajan lavora presso una grande struttura pubblica dove, all’interno di un enorme ufficio, occupa una delle decine di scrivanie addossate l’una all’altra. Da quando ha perso la moglie non nutre interessi particolari per cui, nel tempo libero dal lavoro, vive in solitudine in uno scialbo appartamento di un datato e malconcio condominio del quartiere cristiano. Di poche parole, riservato e prossimo alla pensione, a causa del suo sussiegoso atteggiamento non risulta troppo simpatico né a noi e, tanto meno, all’esuberante e pedantemente fastidioso stagista che gli è stato assegnato quale discente che, tra l'altro, dovrebbe sostituirlo dopo la sua messa a riposo. In quella mezzora di “adattamento” cui accennavo in precedenza, la regia ci propone l’inconsueta figura – almeno per noi - oltremodo ossequiosa di Shaikh, lo stagista che, nella sua ingenua insistenza, cozza contro l’impassibile aura di gomma del burbero Saajan. Entrambi in tempi successivi avranno modo di rivelarsi vicendevolmente la loro vera natura.
L’altro filone conduttore di questa particolare vicenda sono i “dabbawala”, per noi una non convenzionale categoria composta da circa 5000 pseudo fattorini che, con I mezzi più improbabili, e un sistema ancor più bizzarro, ogni mattina percorrono in lungo e in largo le strade di Mumbai per consegnare circa 200.000 “dabba” (contenitori di acciaio verticali a più scomparti) contenenti il pranzo preparato a casa dalle rispettive mogli – oppure da appositi ristoranti - per altrettanti destinatari. I dabbawala, seppur in buona percentuale analfabeti, hanno un margine di errore calcolato di uno a sei milioni ma …uno di questi rari errori cambierà il modo di pensare, di porsi e di agire dell’impiegato modello Saajan e, conseguentemente, del suo “allievo” Shaikh, nonché di un’altra figura, questa volta femminile: Ila Singh.
Ila è una bella donna abitante nel quartiere indù di Mumbai. Ogni giorno prepara per il marito, con l’aiuto e il conforto della zia (della quale sentiamo solo la saggia voce fuori campo), deliziosi manicaretti consegnati attraverso il collaudato sistema dei “dabbawala” ma, scherzo del destino, per errore queste delizie finiscono sulla scrivania del burbero Saajan, il quale, scoperta l’ignota causa dell’insolito e repentino incremento di qualità, inizia con l’anonima casalinga un quotidiano scambio epistolare su foglietti posizionati all’interno del dabba; veri "pizzini" riportanti epidermiche sensazioni quotidiane, mai audaci o equivoche ma, al contempo, progressivamente coinvolgenti per entrambi. Ciò è non solo possibile, ma giustificato dalla situazione in cui si trovano: Ila con un marito praticamente assente, sia fisicamente che affettivamente, e Saajan vedovo e solo da anni.
La sceneggiatura ci pone quindi all’interno di un microcosmo di due persone nel contesto del macrocosmo di una megalopoli assordante e vorticosa con oltre 13 milioni di vicissitudini, una per ogni essere umano residente, e la vicenda acquisisce un occidentale e intrigante interesse rivelando quanto i parametri affettivi siano universalmente e ordinariamente diffusi. A riprova di ciò entra in gioco la sottile bravura del regista/sceneggiatore che effonde nello spettatore, attraverso intelligenti dinamiche, l’evolversi progressivo dell’intima psicologia dei protagonisti, i quali beneficiano giorno per giorno di quell’evanescente ma confortevole attesa dell’attimo in cui estrarranno il foglietto dal dabba. Questo desiderio, inconsciamente prima ma consapevolmente poi, acquisirà importanza e riuscirà a modificare l’atteggiamento sia di Saajan (questo stupirà il povero Shaikh il quale, esternando le peripezie dei suoi poco invidiabili trascorsi, ha infuso un’empatia meritata nei suoi confronti) che di Ila la quale, confortata dalle inaspettate esternazioni di sua madre nel giorno del trapasso di suo padre, giungerà a proporre - con il solito metodo - un appuntamento per potersi conoscere de visu.
Il proposito non andrà a buon fine a causa delle remore subentrate in Saajan quando, recatosi sul posto, constata ( senza rivelarsi) la notevole differenza di età. La regia ci lascerà intrigantemente un finale aperto e possibilista a riprova delle modalità e del ripetersi delle vicende sentimentali con in gioco, prevalentemente e universalmente, la stoltezza e l’egoismo umano (qui ben rappresentate dal marito di Ila, inconsapevolmente ottuso nel riconoscere ciò che ha e che sta perdendo).
A questo proposito si impone una riflessione sulla consapevolezza dei vincoli dovuti alle sole differenze riguardanti la condizione femminile che, mentre la controparte maschile si sente legittimata a qualsivoglia azione, pone dei limiti a seconda delle coordinate geografiche consentendo, oppure no, quell’emancipazione e quell’indipendenza che a lungo e in troppe culture rimarranno un’utopia per molto tempo ancora.
Come accennato, sceneggiatura non immediatamente confacente alle nostre abitudini ma rivelatasi di una certa qual pregnanza e confortata dalle valide interpretazioni dei pochi protagonisti, in particolare di Irrfan Khan ( Vita di Pi) nella parte dell’impiegato Saajan e di Nimrat Kaur in quella di Ila, esotica e affascinante bellezza indiana.
Bella fotografia, forse con un’aura di malinconia per le luci mai dominanti e I colori soft delle frequenti scene in interni.
Senza dubbio consigliabile.
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