Regia di Julien Duvivier vedi scheda film
Nell’anno di maggiore scontro tra bianchi e rossi (il 1953 è l’anno della famosa “legge truffa” che consolidò il potere democristiano), la ditta formata da Rizzoli (i soldi), Amato (il genio), Guareschi (la penna) e Duvivier (lo sguardo) sceglie una via intima. Più che raccontare lo scontro tra due ideologie, Il ritorno di Don Camillo riflette sul senso di un sentimento collettivo a partire dalle persone: è questo il capitolo della solitudine di Don Camillo confinato in montagna, della nostalgia del paesello in cui gli abitanti si rifiutano di morire e nascere in mancanza del curato, dei primi veri problemi familiari di Peppone (il figlioletto che scappa dal collegio: uno degli episodi più belli), del sangue della lotta politica lavato dalla violenza del Po, che inonda il finale con una forte dimensione tragica eppure fatalmente legata alla speranza. Raramente divertente come il capostipite, è per qualcuno il più riuscito della saga ma soprattutto il più malinconico ed inquieto, fiabesco eppure realista, finanche emozionante specie nei pressi dell’epilogo. E l’elemento della comunità trova un suo punto di forza con l’ingresso in scena del fascista Paolo Stoppa, nemico comune del passato che ritorna, quasi a sottolineare l’inevitabile condivisione della memoria.
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