Regia di Jia Zhang-ke vedi scheda film
Film durissimo, ma non spietato: la violenza sanguinosa di certe situazioni ci colpisce, ma non è gratuita: è spesso la reazione disperata a un ordine sociale ingiusto e violento.
Una Cina grigia, soffocata dallo smog, che avvolge paesaggio e case, senza lasciare scorgere neppure un po’ di azzurro in un orizzonte incapace di aprirsi alla speranza, morta e sepolta ormai in quello sterminato paese, che sa offrire, a chi osserva, solo spettacoli di devastazione ambientale, di paesi in rovina, di mostruose costruzioni, di brutti palazzi tutti uguali, che nelle periferie delle vecchie città costituiscono i nuovi insediamenti urbani.
E’ morta anche la gentilezza proverbiale dei cinesi: l’impetuoso sviluppo industriale non solo ha fatto piazza pulita della civiltà dei rapporti umani (che non sono vuote formalità, ma comportamenti che aiutano a star meglio); ha purtroppo annullato anche le leggi che regolavano la convivenza; ha reso del tutto vuote di contenuto parole come solidarietà, fratellanza, compassione, col risultato che l’individualismo più egoistico spadroneggia, portando con sé mafia, corruzione, violenza e soprusi.
Il più forte è, come dappertutto, il più ricco, quello che può comprare tutto, compresi gli esseri umani, beffando e umiliando la loro dignità, oltre che i loro diritti.
Nessuna meraviglia, perciò, se gli onesti, non avendo a chi rivolgersi, trovano il modo di farsi giustizia attraverso quella che è la sua negazione: la vendetta crudele e barbarica dei torti subiti, magari col vecchio pesante e ingombrante fucile da caccia, o uccidendo a colpi di revolver i tre grassatori che, armati di ascia, attendono sulla strada il passaggio del motociclista per derubarlo.
Come in un’ antica pala d’altare policroma, in quattro episodi che per qualche breve tratto si incrociano emerge il quadro terribile di quattro diverse realtà geografiche della Cina, paese senza leggi, Far West di vendette impazzite, di soprusi così gravi da spingere anche il più mite degli uomini (o delle donne) alla furia omicida.
Troppo spesso, però, la volontà sanguinaria si esercita per il puro gusto della sopraffazione violenta: ne fanno le spese gli ignari passanti, colpiti da un revolver che spara nel mucchio, senza un perché, o i miti e pazienti animali sopraffatti a loro volta da una dissennata e feroce crudeltà, ciò che non può trovare altra spiegazione se non quella di una innata propensione al male nell’uomo che, qualora non sia opportunamente contenuta e governata dalla legge e dalla giustizia, dilaga ovunque disgregando l’intero corpo sociale.
In queste condizioni, le donne e i giovani pagano i prezzi più alti.
Le prime, come sempre preda degli appetiti maschili, sono costrette a difendere la propria libertà di scegliere con la violenza per legittima difesa, in ogni caso difficilissima da dimostrare in un universo maschile per il quale le donne hanno tutte quante un prezzo che basta rilanciare, come ci viene spiegato nel dolorosissimo penultimo episodio; i secondi, emblematicamente rappresentati dal ragazzo onesto che, non riuscendo ormai più a comunicare ad alcuno la propria ansia di valori ideali e la sua aspirazione a vivere con la donna della sua vita in modo semplice e pulito, si uccide, sopraffatto dalla disperazione, gettandosi dal balcone della fabbrica, nell’episodio conclusivo del film.
Questo film, presentato a Cannes nel 2013, ha preceduto di pochi mesi l'uscita a Venezia di Miss Violence: mi aveva molto colpita, all'epoca, che due registi, lontani per cultura e per provenienza geografica come Jia Zhang-Ke e Alexandros Avranas, avessero immaginato il futuro dei più giovani senza altro sbocco possibile, se non il suicidio, tanto si rassomigliano l’inizio di Miss Violence e la conclusione di questo film.
I due registi evidentemente erano arrivati alla medesima visione cupa e disperata: in un universo liberista chi non accetta la supremazia del denaro e non vuole scendere a compromessi con se stesso e le proprie convinzioni, è considerato un perdente, destinato a non trovare né ascolto, né comprensione, né solidarietà, poiché quasi tutti si adeguano a un presunto "ordine naturale" e perciò invincibile delle cose di questo mondo.
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