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Il tocco del peccato

Regia di Jia Zhang-ke vedi scheda film

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La recensione su Il tocco del peccato

di supadany
7 stelle

Sicuramente non si può dire che Jia Zhang-Ke si sia ripetuto, se non per l’aver portato a casa un altro premio importante (“Miglior sceneggiatura”, Cannes 2013), probabilmente chi ha amato alla follia la sua impronta autoriale avrà, come minimo, bisogno di ambientarsi, ma probabilmente per chi è da sempre ostico potrebbero esserci delle inaspettate aperture.

Comunque la si voglia vedere è un’opera capace di rivelarsi improvvisamente potente e non per puro divertimento.

Un tranquillo minatore non è più disposto ad accettare il livello di corruzione a cui assiste e tutto il villaggio dove vive conoscerà la sua vendetta (anchi chi è “solo” semplicemente spietato, vedi un cavallo maltrattato).

A casa per Capodanno un emigrante scopre come si può utilizzare un’arma da fuoco.

Una gentile receptionist di una casa di incontri viene molestata da due clienti fin quando non perde il suo proverbiale autocontrollo.

Un giovane continua a cambiare lavoro per migliorare la sua situazione economica, e porre rimedio ad un grave errore, quando s’innamora di una ragazza che lavora nel suo stesso locale.

 

Wu Jiang

Il tocco del peccato (2013): Wu Jiang

 

Benvenuti nella società cinese che galoppa macinando profitti senza troppi scrupoli.

Una lezione occidentale imparata velocemente, d’altronde le banconote cambiano ma hanno tutte lo stesso odore e l’essere umano ha un’istinto meno diversificato di quanto le razze, le distanze e le culture potrebbero far pensare.

Jia Zhang-Ke monta una descrizione sociale di un colosso in rapida evoluzione sotto diverse prospettive ma con punti in comune e conflittualità.

L’esplosione della violenza è la pietra angolare, un’esasperazione, un sentimento covato da tempo (magari per altri motivi, ma il senso di malessere intanto si somma); il primo episodio in tal senso è una carneficina, nel complesso un segnale di allarme, ed anche l’ordine delle quattro vicende costituisce un tracciato e se il primo che vediamo sarebbe stato un finale “glorioso” (profondamente “tarantiniano”, da òla), qui non c’è proprio niente da beatificare e la discesa nei meandri del disagio personale porta ad un sentore più doloroso con una parte finale che finisce col fare da cappello a tutto il resto mettendo le pulsioni sotto controllo.

Opera a grande rischio di coesione, lirica e commovente, capace di impennarsi improvvisamente come di coltivare l’interiorità (comunque pronta ad emergere in qualche modo), per un riquadro d’insieme che ha indubbiamente un nucleo limpido, pur viaggiando su livelli un po’ troppo distanti (ed a volte questo lo si percepisce).

Sorprendente (nel bene o nel male, molto si riferisce a quanto scritto in apertura).

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