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Il tocco del peccato

Regia di Jia Zhang-ke vedi scheda film

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La recensione su Il tocco del peccato

di EightAndHalf
7 stelle

Ecco cosa succede in A Touch of Sin di Jia Zhang-ke. Quattro storie disposte forse casualmente o forse secondo un ordine prestabilito e invero importante per la comprensione del film tutto ritraggono con una disillusione sconvolgente il presente contemporaneo della Cina, che vira assurdamente verso la piattezza emotiva e l’alienazione, pur nel tanto conclamato comunismo maoista. È infatti sempre stato intento di Jia discutere della freddezza della nuova Cina, fin dallo splendido finale di The World, fin dall’indifferenza di Still Life. E anzi quel pessimismo, qui colorato del sangue rosso dei morti ammazzati, sembra voler prendere una piega diversa, sembra voler esplodere in quei fiumi di emoglobina che pure, non a caso, nei precedenti film di Jia erano assenti. Ma che ruolo affidare, in A Touch of Sin, alla violenza, tanto distruttiva e vibrante?

Innanzitutto sembra fondamentale denotare la catartica immersione di Jia nell’incomunicabilità del Nuovo Millennio, sempre stata graduale (fin da Platform) ma giunta, con Still Life, a livelli da silenziosa Apocalisse. Immagini splendide e imprevedibili come partenze di shuttle o passaggi di UFO, nel film del 2006, erano riprese con la stessa flemma con cui si ritraevano paesaggi destinati alla distruzione e sguardi ultimi di personaggi inconsistenti perché persi e distanti. Qui siamo ancora a quei livelli, Jia riprende momenti violenti e momenti relativamente normali con le stesse modalità, una regia notevole che gira e si aggira fra i corpi e le frustrazioni di un mondo che sembra distrutto sul nascere. Eppure, si potrebbe quasi dire che Jia sia, nel Tocco del peccato, alla ricerca continua della discontinuità, quella che poteva essere rappresentata dalle meraviglie di Still Life e quella che adesso si può riporre soltanto in una violenza non ragionata e distruttiva. È dunque sul valore della violenza, eversivo e inquietante, che si concentra il film di Jia Zhang-ke. Ed è su questo che è bene soffermarsi, perché ben poco altro sembra esserci nelle immagini tese e lente solo nell’imminente mostrarsi di A Touch of Sin. Un poco altro che è, ancora una volta, l’annullamento e la dissoluzione dell’umanità e di tutto ciò che questi fattori rappresentano entro i parametri materialistici di una campagna, di una città, di una società mortuaria.  La fine dell’essere umano e alcuni estremi tentativi di salvezza, per salvare almeno la Morte e la Violenza da quel circolo infernale di una vita ciclica e definitivamente implacabile. Dire che qui la violenza ha un valore simile a quello che poteva avere la violenza kubrickiana di Arancia meccanica potrebbe risultare assurdo e senza senso, ma è effettivamente lì che Jia, in altro contesto e con altre intenzioni, sembra voler andare a parare. Il valore assurdo della violenza come punto di rottura di un libero arbitrio annullato, in Kubrick da forze esterne, in Jia autoannulatosi. È chiaro che in Kubrick non c’è la freddezza compositiva e indiscriminata di fronte alle varie immagini, ma forse in questo caso Jia sembra aver voluto aggiungere un discorso ben profondo sulla paura che anche il Cinema e dunque per estensione l’Arte potrebbero essere rivolte verso un inabissamento nichilista (vedi il finale). Però questa è solo una supposizione che cozza con l’evidente disarmonica bellezza di certe immagini. O forse, è proprio la bellezza a confermare quella prima supposizione: lo splendore pericoloso della freddezza.

Tornando al film e a ciò che racconta, A Touch of Sin propone un’umanità sfuggente e guidata da sentimenti elementari, e la presenza di questi sullo schermo potrebbe essere motivabile in maniera elementare e immediata: è l’assurda Cina violenta dell’oggi. Ma Jia sa che non ha senso non problematizzare, e questo avviene a un livello molto sottile che sa pure compiacersi del Nulla: la violenza che passa di mano in mano, in questa ronde inquietante e assai desolante, la prima è discontinuità autolesiva, perché decide assurdamente di fare piazza pulita di tutti; la seconda è discontinuità apparente, ché la violenza dell’uomo sembra essere diretta conseguenza di quell’alienazione, che si dimentica della dignità della vita; la terza è discontinuità frustrata, apportata da una donna che non è in grado di salvare se stessa né nessun’altro; la quarta è discontinuità involontaria, ché l’incidente avviene per caso e si ritorce in un’ansia vendicativa che si attorciglia in sé stessa, se non che il tutto viene annullato dal robotico lavoro dell’albergo ripulito e profondamente metropolitano. Così la violenza sembra sempre fallire nel suo intento, o meglio, essendo un mezzo assurdo e contro la vita (almeno concependo la violenza a livello realistico e concreto), rivela la sua incoerenza nel ruolo di vera rottura dell’assurda Indifferenza, e mostra che non porta ad altro se non all’annullamento (indifferenziato, buio pesto). Per questo la terribile scappatoia, è inutile negarlo, è il suicidio, che nel finale, velocemente, si compie, di fronte ad abitazioni popolari regolate da andamenti fissi e geometrici, dove neanche il vento soffia. Ecco dunque che il titolo assume un carattere quasi paradossale: la violenza è l’unico momento in cui gli esseri umani veramente si vengono incontro  e rompono quella incomunicabilità, al prezzo ultimo della sofferenza. Unico assurdo punto di rottura, la morte, dal mondo alienato.

C’è da dire che Jia sa quello che vuole, e non ha paura di diventare ridicolo: nel momento in cui la donna del terzo episodio elimina l’aggressore sembra raggiungersi quasi il ridicolo, l’assurdo, e c’è anche un momento di discontinuità registica, perché per pochi attimi l’immagine diventa espressionistica e si rivela attenta ai dettagli (più cruenti). Ma è solo un attimo, come una breve e fasulla catarsi, e tutto ricade nel gesto robotico della donna, che agita il coltello e le braccia in maniera fredda e, appunto, alienata. Ci si apre, così, all’alienazione della violenza, la negazione della libertà.

C’è forse una nota di speranza nel finale? Una donna che si copre da un vento che finalmente soffia? Un pubblico di fronte a un palco? Forse più che speranza c’è paura: il pubblico di fronte allo spettacolo, un po’ come il pubblico iniziale di Holy Motors, è alla stregua dell’umanità che Jia ha appena raccontato. È un pubblico freddo, già morto, alienato. Diventato robot. E l’immagine si azzera paralizzata e impaurita.

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