Regia di Jia Zhang-ke vedi scheda film
Un apologo brutale duro e pessimista che analizza il lato più feroce e disumano dello sviluppo economico selvaggio in una Cina assetata di un capitalismo che ha cancellato non solo la dignità, ma anche i diritti della gente comune. L’occhio del regista è sconsolatamente veritiero: fotografa impietosamente ciò che resta di un’umanità allo sbaraglio
E’ davvero straordinaria (mi verrebbe da dire “stupefacente”), ma anche molto coraggiosa, la capacità che ha mostrato di avere Jia Zhang-ke (fino ad ora considerato il malinconico cantore del mistero del quotidiano) nel ripensare e rinnovare il proprio modo di fare cinema e la propria personale cifra autoriale, cosa che è riuscito a fare rendendosi di nuovo creativamente “inedito” (ma senza rinnegare del tutto il suo passato), con Il tocco del peccato (Tian zhu ding), ovvero la sua più recente fatica transitata con successo dall’ultimo festival di Cannes, che oltre a confermarsi una interessante e suggestiva opera, riesce ad essere davvero - e inaspettatamente – spiazzante, soprattutto per coloro che pensano che gli autori debbano essere sempre fedeli a una maniera di rappresentare le cose analoga a se stessa, e sono poco indulgenti verso le evoluzioni formali e di contenuto che non hanno messo in conto, e altrettanto indisponibili ad accettare “mutazioni” che non vedono mai di buon occhio, ma che a mio avviso rappresentano invece il necessario cambiamento (e la maturazione) dell’approccio alla materia di chi ha acquisito la preziosa sensibilità di sapersi adeguare alle differenti strutture dei soggetti da realizzare al fine di trovare la modalità più adatta e originale per la loro “messa in scena”, anche a costo di sorprendenti e rischiose variazioni che spesso si mostrano invece vincenti. Forse sarà stato stimolato in questo dall’urgenza produttiva squisitamente commerciale di una committenza che gli ha probabilmente richiesto un prodotto vendibile all’estero con maggiore facilità rispetto alle sue fatiche precedenti, o comunque in grado di intersecare meglio (e soddisfare) i gusti in trasformazione del nuovo pubblico nazionale sempre più occidentalizzato, ma ciò ha davvero poca importanza né cambia la valutazione positiva della mutazione se poi, misurandosi con il risultato conseguito, ci si trova di fronte a una pellicola non soltanto ispirata, ma anche di eccellente e sconvolgente levatura come questa: un dramma polivalente che trae origine da fatti e situazioni ripresi dalla realtà, traslati nella forma di quattro storie indipendenti (3 assassini e 1 suicidio consumati ed ambientati in differenti regioni del sud e del nord del suo paese) in bilico fra un realismo quasi documentale pregno di una sconvolgente violenza inattesa e personale che privilegia il sangue, oltre che di un surrealismo grottescamente amaro che con le sue disperate provocazioni sembra voler proporre quasi un ribaltamento irrazionale delle cose.
Ci troviamo insomma di fronte a un apologo brutale, duro e pessimista, che analizza e scompone il lato più oscuro e disumano dello sviluppo economico selvaggio e senza freni, che nella Cina assetata di capitalismo, ha calpestato e cancellato non solo la dignità, ma anche i diritti della gente comune.
La Cina odierna dunque, e il suo aberrante “progresso” (o presunto tale, perché io alla fine lo leggo proprio in altro modo) che ha fatto diventare il paese un mondo autoritario in cui sono saltate tutte le mediazioni sociali e politiche, e in cui la sfacciata corruzione dei funzionari pubblici (oltre che dei nuovi ricchi) vessa scientemente con prevaricante arroganza, fino all’estremo limite della sopportazione, il suo popolo sfiancato. Un luogo insomma inquinato come l’aria che si è costretti a respirare densa di velenoso smog, dove però alcune delle tante vittime del sistema, stanno incominciando a imparare a rispondere a questi soprusi, e lo fanno con altrettanta violenza (più fisica che intellettuale), senza alcun timore per le conseguenze che tali atti avranno poi sulla loro stessa vita.
L’occhio del regista è sconsolatamente veritiero (di quelli che per la cruda visione delle cose che mostra, lascia davvero poco spazio alla speranza): fotografa impietosamente ciò che resta di questa umanità allo sbaraglio che per difendersi si trova costretta ad agire seguendo le primordiali pulsioni del sangue, poiché non conosce altro mezzo che quello e non possiede la coscienza razionale di una differente scelta meno cruenta.
In un universo sospeso fra il rurale arcaico e l’urbano alienato che potrebbe essere lo stesso di Still life e di Platform, Jia Zhang-ke costruisce così un doppio dittico di personaggi perduti, che risolvono la propria inadeguatezza ricorrendo appunto all’azione violenta, all’esplosione verso l’esterno delle rabbiose umiliazioni che generano una furiosa rivalsa che sfocia nel delitto e nella morte. Una sete inarrestabile di “giustizia sommaria” che diventa in queste vicende raccontate, la chiave di volta per una possibile rivincita e l’unica risposta concreta per cercare di compensare in positivo le proprie aberranti frustrazioni, un qualcosa insomma che sembra quasi stare a mezza strada (ma il riferimento è forse troppo semplice e scontato) fra il cinema di Kitano e ciò che rappresenta (che forse non a caso è anche uno dei produttori del film) e quello ancora più estremizzato di Pak Chan-wook.
Parlo di semplicistico e scontato accostamento, perché anche sotto il profilo della forma, Jia Zhang-ke, è comunque alla fine totalmente autonomo e tutt’altro che un derivato di quei precedenti universi già così magnificamente esplorati dai due gloriosi artisti sopra citati: Jia ha solo avuto il coraggio riscegliere e adottare la modalità più adeguata e consona (che magari si avvicina un poco a quei mondi) per mostrare l’abisso, e con questo, le conseguenze catastrofiche di un disfacimento che non è solo etnico, ma anche sociale, e mettere così a fuoco (e in rotta di collisione) tenendo comunque saldamente al centro l’alienazione psicologica e il disorientamento degli sconfitti, le distanze abissali fatte anche di incomprensioni e di sottese ribellioni fra le disperaste masse senza identità stimolate dalle illusorie contraddizioni del benessere, e le potenti e ricche oligarchie che le dominano dall’alto facendole muovere sul palcoscenico della vita, tirando i fili come si fa con i burattini.
Un film insomma molto radicale che si muove su vari livelli che intende rappresentare una società in cui i valori umani sono soffocati e seppelliti dalla ricerca del denaro a tutti i costi, e in cui lo sguardo sul presente brucia d’ironia e cancella con un gesto tutto un passato di dolenza cinematografica (Andrea Bellavita) che prova a raccontarci – con quattro storie che incrociano fra loro (ma senza farle mai realmente incontrare e “coincidere”) - la vita (e le reazioni) di un muratore esasperato dalla corruzione dei suoi superiori (dirigenti compresi), e quelle altrettanto distruttive di un lavoratore talmente esacerbato da impugnare una pistola per difendersi dalle vessazioni, dell’hostess di una sauna in lotta con l'amante sposato, e di un operaio costretto a lavori sempre più degradanti che lo umiliano.
Attraverso di loro, il regista mette in mostra gli inganni e i soprusi quotidiani del potere, causa primaria delle sofferenze e dei disagi di chi ha definitivamente smarrito la sicurezza che poteva trovare quando, pur nell’indigenza, avvertiva ancora la sotterranea (e magari ugualmente illusoria) consapevolezza di poter operare delle scelte, cosa non più possibile in quel paese dove ormai si riesce a sopravvivere solo nel rispetto dei codici e dei miraggi illusori dei profitti, e si è di conseguenza schiacciati e trascinati, da una parte dal peso dei fantasmi del passato, e dall’altra, dall’irrazionalità dei un reale sempre più sfuggente e minaccioso. Un mondo insomma dove non ci sono più tracce (rese impossibili dagli eventi) né del desiderio di riconciliazione che si poteva ancora intravedere in Still life o di quella speciale capacità curiosa che portava ad annullarsi dentro le finzioni ricostruttive di The World, (che come ricordiamo tutti, era una strutturata esplorazione sull’impatto dell’urbanizzazione e della globalizzazione in una cultura tradizionale e secolare come quella cinese).
In sostanza, ci troviamo dunque di fronte a un’opera che si focalizza sui controversi e tragici “destini” dell’umana natura dell’uomo, e si concentra soprattutto sul senso di colpa e sul significato perduto del peccato, elementi così fondamentali questi, che contribuiscono a traslarla nell’avvincente, epico racconto di una civiltà feudale e contadina ormai perduta e fagocitata (contaminata) dal consumismo e dove persino le tradizioni millenarie della sua storia risultano ormai talmente “diluite”, da non riuscire più a regolare i conflitti e a lenire le disuguaglianze di classe.
L’approccio è audace e sottilmente partecipativo (anche se spesso mostra le conseguenze delle azioni prescindendo però dalle cause): dentro la visione lucida e disillusa del regista, scevra dalle fallaci seduzioni della propaganda come della nostalgia delle radici, il film si conferma insomma come un’istantanea feroce e disturbante delle promesse disattese e dell’odio per lo sfruttamento (morale e materiale) che implode nella gente costretta a subire soprusi e limitazioni, il tutto raccontato con uno stile improntato a un’idea di realismo raffinatamente stilizzato che non rinuncia (ed anzi privilegia ancora e sempre, come già in passato) ai magnifici e prolungati piani-sequenza che ben conosciamo, arricchiti però in questo caso, da inconsuete accelerazioni ed ellissi narrative di straordinaria presa anche emotiva che sfociano quasi “naturalmente” in improvvise esplosioni di una violenza quasi catartica.
Un cinema intimo e crudele dunque, che pone interrogativi brutali semplicemente ponendo sullo sfondo le riprese superbe di un paesaggio che rimane sublime nonostante gli scempi, capace da solo di amplificare attraverso le selvagge distorsioni consumistiche a cui è sottoposto, conflitti e tensioni, e che proprio a causa della sua rigogliosa opulenza, diventa il termometro feroce della consumazione di un tempo (e di un luogo) vinto e stravolto nonostante la forza salvifica della natura. E’ l’immagine infatti in primo luogo che con la sua immediatezza spietata diventa la vera coscienza che evidenzia e parla della inarrestabile corruttibilità delle cose, del segno incancellabile della confusione dei valori, del distacco e della fuga da un mondo alla fallace e costante ricerca del denaro dove davvero tutto viene sacrificato sull’altare del profitto e che fa della conservazione politica del potere il proprio dio.
Il tocco del peccato (che Domenico Barone definisce una pellicola dallo spirito rosselliniano) è insomma un’opera coraggiosa e magistrale sospesa fra passato e futuro che contamina nella visione espositiva delle storie, sia le fatiscenti baracche del suburbio che le più avveniristiche strutture architettoniche della modernità e traccia così le coordinate di questa disperata discesa dentro la perdita dell’innocenza di una nazione che ha distrutto i fragili legami di appartenenza della fratellanza rurale e contadina, focalizzando il discorso sul disordine e i tradimenti del presente, anziché limitarsi (e rassegnarsi) a considerare questo viaggio (all’inferno?) come l’ineluttabile espressione di un destino segnato a cui è difficile sottrarsi. Il regista ne fa di conseguenza un vero e proprio osservatorio privilegiato terribile e puntuale, che punta il suo obiettivo sulle disperate solitudini calpestate dalla barbarie del capitalismo e della corruzione.
Ampiamente meritato il premio alla bellissima e articolata sceneggiatura (opera dello stesso Jia Zhang-ke), che è davvero uno degli elementi di indiscusso pregio, e che con la complicità dell’avvolgente luminosità della fotografia (curata come sempre da Yu Lik-wai) e dell’eccellente qualità del suono, contribuisce a rendere magmaticamente efficace la rappresentazione.
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Jia Zhang-ke, insieme ad altri autori quali Zhang Yuan e Wang Xiaoshuai, appartiene alla cosiddetta “sesta generazione” dei registi cinesi, Filmmaker di talento che hanno optato per una nuova forma di realismo supportata da uno stile più moderno ed efficace, non senza qualche difficoltà dovuta al sistema produttivo del loro paese che si mostrò all’inizio poco sensibile al riguardo: i loro primi film, che risalgono alla seconda metà degli anni ’90, furono infatti realizzati in condizioni di semi-illegalità e ci vollero davvero molti sforzi perché potessero alla fine affermarsi non solo in Cina ma sul mercato mondiale.
Jia Zhang-ke ha dichiarato pubblicamente di essere stato influenzato nel suo percorso artistico, da autori di grande spessore sia emozionale che formale, quali Ozu, Bresson, Fellini, De Sica e soprattutto Hou Hsiao-hsien (che ricordiamo autore singolare e talentuoso, vincitore a Venezia del Leone d’oro nel 1989 per Città dolente e a Cannes per la migliore sceneggiatura de Il maestro burattinaio nel 1993. Le altre sue opere di particolare rilevanza dentro una folta schiera di pellicole sono: Millennium Mambo del 2001, Café Lumière del 2003 e l’episodio The Electric Princess House nel film collettivo del 2007 Chacun son cinéma): un “imparentamento” culturale il suo, che ben si avverte in quasi tutte le sue opere e fino dalle sue prime affermazioni che erano ambientati in aree rurali e provinciali (Pickpocketdel 1997 e Platform del 2000).. Con quelli successivi (Unknown Pleasuresdel 2002 e The world del 2004) pur lasciando abbastanza invariato il suo stile, privilegiò invece le aree industriali e Pechino come sfondo geografico.. In ognuna di esse, ha trattato i temi del disorientamento e dell’alienazione della gioventù cinese e degli squilibri sociali dovuti allo sviluppo economico e alla globalizzazione. I suoi personaggi amari, duri e individualisti, certamente determinati ma purtroppo votati al fallimento, sono i protagonisti di piccole tragiche storie di solito abbastanza corali. Nel 2006, con Still life(Leone d’oro a Venezia) e poi con i film presentati a Cannes negli anni successivi (24 City del 2008, e I Wish I Knewdel 2010), ha optato invece per un registro che combina finzione e documentario, con un risultato poetico e “politico” di grande rilievo sia sotto il profilo dell’emotività che dell’estetica. Attraverso di essi – figure che oscillano tra tristezza rassegnata e sprazzi di vitalismo, nostalgia e desiderio, ha rappresentato scene di vita reale ambientate in contesti esistenziali e sociali attraversati da mutamenti epocali che hanno cambiato il volto alla sua Cina. Questo è quello che il regista ha realizzato prima di approdare a Il tocco del peccato, sua ultima “nuova” e strabiliante fatica, dove invece le esplosioni di violenza sembrano voler ricordare non solo il cinema di Takeshi Kitano, ma anche quello davvero molto popolare in Cina, delle arti marziali: è presto per stabilire se questa sarà l’opera che farà da spartiacque per un nuovo corso, e per saperlo, non ci rimane che aspettare le sue prossime mosse.
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