Regia di Søren Kragh-Jacobsen vedi scheda film
L’ora della lince è la venticinquesima. Quella in cui non dorme e non caccia. È il momento in cui forse prega, perché la voce di Dio si fa sentire, con un canto trasportato dal vento. Quel suono è tutto ciò che resta ad un ragazzo orfano, chiuso nella cella di un istituto psichiatrico. È un giovane assassino, che ha barbaramente ucciso un’anziana coppia di coniugi, apparentemente senza motivo. La psicologa che lo sta seguendo non ci capisce nulla, e chiede quindi aiuto ad un’altra donna, un pastore luterano, che forse può sondare il sottofondo religioso di quella cupa follia. Questo film danese investiga il mistero dei delitti ordinati da un ente superiore, che chiama, dall’aldilà, promettendo la salvezza. Impensabile coglierne il senso ultimo e profondo, poiché chi è abituato a comunicare col divino non riesce ad esprimersi in una forma umanamente comprensibile. Questa è la storia di una generosa offerta d’ascolto, che prova a prestare aiuto, ma non pretende di spiegare, né, tantomeno, di risolvere il problema. Eppure questo racconto, così discreto e rispettosamente distante, riesce a farci intuire come anche la pazzia più funesta possa avere le sue profonde, luminose ragioni. E magari rivestirsi di una innocente speranza. Il protagonista cerca una via di fuga, che è il miraggio di un ritorno impossibile. Il paradiso, per lui, è un luogo della nostalgia, il ricordo di una felicità tramontata per sempre. La sua violenza è l’estremo tentativo di cambiare una realtà ingiusta, cattiva, inaccettabile, riportando indietro le lancette del tempo. La vita può smettere di evolversi verso il dolore solo se la si interrompe, una volta per tutte. Questo è l’unico modo di arrestare quel continuo allontanamento da un passato che rappresentava l’amore, la condivisione, la pienezza. Il ritmo lento della narrazione riproduce l’attrito tra un ambiente medico che vuole progredire, nella conoscenza del male e nella realizzazione della guarigione, ed un oggetto di studio che si ribella ai loro obiettivi, che preme per fermare il corso di un’esistenza che lo sta, a più riprese, condannando alla solitudine, alla separazione da ciò che gli è più caro, alla perdita di ogni bene. Il suo disturbo mentale è una gabbia in cui egli esercita un’autarchica forma di creatività, che aspira a modellare il mondo a misura dei suoi desideri, per ricostituire il volto di un remoto attimo fuggente, costi quel che costi. Quel ragazzo a tratti scalpita, a tratti si avvilisce, intorno ad un sogno irrimediabilmente frustrato, che può avverarsi solo in un’altra dimensione. Il film di Søren Kragh-Jacobsen, tratto dal dramma teatrale dello scrittore svedese Per Olov Enquist, usa la parola con la prudenza di chi è consapevole dei suoi limiti, e lascia che le immagini parlino, tranquillamente, il loro linguaggio delicatamente ambiguo.
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