Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Dopo la trilogia della morte, Alejandro González Iñárritu ci regala la rinascita, quella di un artista e non solo metaforicamente. A mio modesto parere, mai Michael Keaton avrebbe pensato di trovarsi un giorno con un ruolo così bello e impegnativo.
Cosa ha reso una storia che contiene elementi comuni a tanti e consueti drammi per il teatro e per il cinema in un’opera eclatante e veramente innovativa? La star decaduta, la rovina economica, il completo fallimento familiare, la spietata concorrenza dei nuovi attori, ahimé anche bravi e soprattutto giovani: tutto visto e ordinario, nulla di nuovo per un copione. E invece ecco l’idea geniale. Un apparente-unico-lunghissimo-piano-sequenza dai titoli di testa fino a quelli di coda girato con una continuità che toglie il fiato (che peccato l’interruzione subita in sala a metà strada!) al ritmo di un metronomo incessante nelle mani di un musicista ingegnoso e geniale alle percussioni e con ripetuti duelli verbali (e non solo) del protagonista con tutti gli altri personaggi. Eh sì, perché Riggan è un uomo egocentrico, egoista, che ha fatto terra bruciata intorno e ha rovinato tutto ciò che la vita gli aveva offerto. Finanziariamente è sul tracollo, avendo impegnato tutto per questo ultimo appello per la sua vita artistica; la moglie Sylvia pur provando ancora affetto lo ha mollato; la figlia Sam sta appena uscendo dal tunnel della droga, dove aveva trovato rifugio a causa della mancanza di un padre nella sua vita quotidiana; i produttori gli offrono ancora una volta un film su Birdman, il personaggio fantasy che gli ha portato celebrità e fortuna e lui non ne ha più voglia, stufo com’è; l’attore comprimario che gli hanno abbinato per la messa in scena del suo tanto desiderato spettacolo teatrale è una schiappa e lo vuole sostituire; la più influente giornalista di critica teatrale, Tabitha Dickinson, ha già deciso a priori di scrivere un articolo sul New York Times per stroncare, a prescindere, senza averlo minimamente visionato, lo spettacolo. Insomma ce l’hanno tutti con lui. Anzi!
Tutti hanno qualcosa da rimproverargli, ognuno ha un insulto pronto per lui. Per giunta quando è solo gli piove addosso l’amico/nemico che più lo maltratta e più lo fa soffrire: è il suo alter ego, la sua coscienza, è il suo “io” che lo conosce meglio di tutti: è se stesso che riconosce più degli altri i suoi fallimenti ma anche le sue possibilità, il suo talento. Lo insulta e lo incita, lo sgrida e lo blandisce, comunque non lo molla e gli respira sul collo. Ciò che lo aspetta è la prova della maturità: l’interessantissimo e tumultuoso testo di Raymond Carter, What We Talk About When We Talk About Love, è quello che Riggan vuole che diventi il suo riscatto sia di uomo che di artista, che lo riavvicini alla famiglia e specialmente alla figlia, che gli ridia dignità umana e artistica e finalmente gli permetta di dare l’addio o, meglio, il fuck-off definitivo a quell’uccellaccio che la fama e la major produttiva gli hanno cucito addosso e che lui non sopporta più. Lo sa bene e trova la molla definitiva quando la spietata e indisponente critica Tabitha gli spiattella nel bar che lui, Riggan, è semplicemente una celebrità, non un “attore”!
Il finale è sorprendente come del resto tutto il film. Il successo dello spettacolo teatrale è clamoroso, anche per il suo sensazionale gesto più che mai “teatrale” del finale. Riggan ha quindi fatto centro pieno e aprendo la finestra, di quella stanza d’ospedale dove si risveglia, compie il gesto che non avrebbe mai pensato di fare: Riggan Thomson è veramente un grande attore e un grande regista, lo ha dimostrato, e adesso può perfino permettersi di tornare a volare, come il suo mostruoso uomo-uccello. L’inquadratura finale che Iñárritu ci regala è la brava Emma Stone, un uccellino, per restare in tema, un uccellino che svolazza tra i rapaci che litigano sulla scena per sbranarsi e che giustamente preoccupata guarda giù per la strada sicura di trovare il corpo di suo padre spiaccicato sul marciapiede ma che poi alza lo sguardo verso il cielo, con il sorriso che ci spiega che finalmente il papà è tornato a volare, mentre il verso di un rapace echeggia tra il continuo ritmo della batteria di Antonio Sanchez.
Tra le scene che più rimangono impresse c’è indubbiamente quella del nervoso dialogo tra Riggan e la giornalista nel bar a fianco del teatro. L’attore reagisce rabbiosamente all’atteggiamento distaccato e indisponente della critica, rimproverandole di saper osservare solo l’esteriorità e non guardare la struttura e le intenzioni di un attore di teatro, di essere capace solo di etichettare gli oggetti e le persone. “Perché lei non è capace di vedere questa cosa (le mostra un fiore) se non sa come etichettarla. Lei scambia tutti quei rumorini che ha nella testa per vera conoscenza. Qui non si parla per niente di tecnica, non c’è una parola sulla struttura e sulle intenzioni. È solo un mucchio di opinioni del cavolo, supportate da paragoni del cavolo. Lei scrive un paio di paragrafetti e… sa una cosa? Niente di tutto questo le costa un beneamato nulla. Lei non rischia niente, niente, niente, niente. Beh, io sono un attore!” Non è risaputo che tante volte i critici scrivono e scrivono senza aver ancora visto lo spettacolo, per giunta senza mai liberarsi dai pregiudizi???
Dopo la trilogia della morte, Alejandro González Iñárritu ci regala la rinascita, quella di un artista e non solo metaforicamente. A mio modesto parere, mai Michael Keaton avrebbe pensato di trovarsi un giorno con un ruolo così bello e impegnativo. Dopo una carriera dignitosa e ricca di titoli con buone commedie brillanti e dopo aver avuto un ottimo successo con il doppio Batman di Burton (è il doppio Birdman?) ha avuto qui la grande occasione della sua vita e l’ha sfruttata in maniera straordinaria. La sua performance è davvero di altissimo livello e il 22 febbraio in realtà gli è stata scippata la statuetta dorata degli Oscar da un giovane attore che avevano truccato da scienziato ammalato, maledizione! Iñárritu, che ha avuto il grande merito di girare questo film coraggioso e rivoluzionario dal punto di vista tecnico, ci ha regalato dei primi piani sul suo viso che esprimeva appieno i sentimenti che attraversavano furiosamente la testa e la pancia di Riggan. Notevolissimo anche Edward Norton, finalmente in un ruolo all’altezza delle sue enormi possibilità. Emma Stone non ha deluso le attese mentre continua a percorre una giusta strada verso la crescita professionale. Enormi i meriti del batterista Antonio Sanchez, fino a poter affermare che parte della riuscita del film è anche merito della sua inconsueta e ammaliante ritmazione (neologismo necessario) della sceneggiatura: un ritmo che accompagna lo spettatore fino a casa. La fotografia del magico Emmanuel Lubezki è parte integrante dell’altrettanto magica regia, è come un tutt’uno. Senza quella regia non ci sarebbe stata quella fotografia e viceversa.
Film incantato, meraviglioso, ammaliante, diretto da un regista in stato di grazia che ama stupire, dotato di una sceneggiatura che si fonde con il testo che viene recitato sul palco dagli attori del dramma di Carver fino a identificarsi e a scambiarsi le battute, fino insomma ad arrivare al gioco spericolato che i dialoghi avrebbero potuto anche essere scambiati, senza che noi spettatori ce ne saremmo mai accorti. Un film con cui forse Hollywood vuole liberarsi dai sensi di colpa dei clamorosi incassi delle tante pellicole di supereroi ma con poca arte, con cui si potrebbe anche leggere la superiore valenza artistica, un po’ snob, del teatro sul cinema? Forse, ma anche e soprattutto davvero il film della stagione.
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