Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
mi piacciono i film sul mestiere dell'attore. trovo affascinante indagare su questa attività così inutile al fine della vita eppure così indispensabile e imprescindibile(per me almeno). troviamo riggan thompson ad inizio film che flutua in mutande nel suo camerino mentre è immerso nella meditazione. solo qualche istante prima una meteora stava attraversando i cieli di new york con una promessa di ecatombe. e l'ecatombe nel film di inarritu e nella vita di riggan thompson è costante, da quando nel 1992 ha detto di no al IV capitolo della saga di BIRDMAN, il personaggio che lo ha reso ricco e celebre. le percussioni che accompagnano costantemente le prove a broadway di un testo di carver che parla di un'altra cosa così intangibile e non assolutamente necessaria come l'amore, eppure perennemente calata sopra la nostra testa come una ghigliottina in attesa di calare, rendono precaria la situazione. una situazione reale come le finanze irrisorie e l'esito del testo alle preview, e più aerea ma pericolosa come la sanità mentale. "di cosa parliamo, quando parliamo di amore" recitano le lettere cubitali sopra il teatro, e di cosa si parla quando si parla dell'attore e del recitare?... riggan thompson flutua in una dimesione parallela in rischio di collasso. non chiede altro se non di una chance, che in teoria la si deve lasciare a chiunque. ma c'è chi dice no! lo dice mike, l'attore teatrale e colto che sostituisce quello "cane" travolto da una lampada del set, e lo dicono i pronostici. glielo sputa in faccia la figlia in un momento di rabbia nel solito rapporto padre-figlia tanto caro al cinema a stelle e strisce e lo dice la sua ex moglie che alla notizia di ipoteca sulla casa di malibu, alza le mani e gli ricorda solamente di star vicino alla progenie. e glielo vomita in faccia la critica, la bastarda, colei che deciderà le sorti dello spettacolo. c'è differenza tra l'essere un attore e una celebrità. e se si è una celebrità non si può essere un attore, ergo, le sorti dello spettacolo si decidono da sole, in una somma matematica così semplice e ottusamente stupida. nel pieno centro della vita teatrale della grande mela, riggan thompson si aggira famoso come un ghostbuster, ma anche come l'omino marshmellow giunto come nemesi distruggitrice pensata da aykroyd. una dualità schizofrenica che deflagra in un'idea di morte sul lavoro, salutata dalla critica-bastarda come unica soluzione possibile allo stagnante intellettualismo della vita teatrale della città. come appunto andavo sentenziando mike, il sangue deve essere sangue: "l'unico posto in cui non fingo mai è il palco". cioè, essere veri per perfetti sconosciuti accorsi a venerarti come un sacro graal irraggiungibile. invece nella vita vera si può e si deve mentire mantenendo una parvenza di maledettismo pubblico il giusto per essere recensito positivamente. quante morti sul lavoro a volo d'angelo dalle lettere di hollywoodland, o nella promessa di un sonno ristoratore eterno di pillole, o una morte dolce coi polsi tagliati nell'acqua calda di una vasca da bagno. o meglio ancora, passare alla storia del lato oscuro del cinema, con il corpo nudo segato in due totalmente svuotato di sangue. inarritu perlustra i corridoi e i camerini del teatro come meandri mentali overlook-iani, di qualcuno che è già stato lì tanto tempo prima, tornandoci sempre come nella commedia-horror "ricomincio da capo", più come maledizione che come viatico per una rivalutazione artistico-umana. straordinaria interpretazione monstre di michael keaton, accompagnato da un gruppo di attori meravigliosi su cui spicca galifianakis.
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