Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Nelle ingegnose connessioni spaziotemporali di un complicato, armonico piano sequenza programmatico che è manifestamente artefatto, Iñárritu inscena il palcoscenico della vita. Luogo-cervello, di livide labirintiche ossessioni e fan(t)a(s)tici voli sospesi tra il tragico(mico) e l'onirico; di nevrosi portate all'eccesso e di eccessi di paranoie. Un'interfaccia ipertestuale di un grottesco caotico universo, puro e parimenti bastardo, in cui recitare è un po' morire e vivere, e realmente esistere. Forse. Non a caso, Keaton/Riggan/Birdman continua a dir(si) «Io non esisto», mentre quel dotatissimo figlio di buona donna di Norton (uno dei tanti geniali cortocicuiti finzione/realtà disseminati con maestria dall'autore/demiurgo) dichiara di essere - e dire il - vero solo sul palcoscenico, (mega)erezioni e tentate copule comprese.
Ben lungi, però, dall'essere un gelido e noioso quantunque virtuoso esercizio retorico e di stile, Birdman è opera di rara intelligenza dalla composizione stratificata, strutturata su livelli e letture che sanno toccare sensibilità apparentemente divergenti; avendo come catalizzatore e (schizzato) nucleo sinaptico un prototipo emblematico del mondo Hollywood e dintorni. L'attore dal passato glorioso, uno che ha conquistato fortune e fama grazie al ruolo di un supereroe (Birdman), decaduto e fallito come tanti altri: il riscatto, ovvero l'ultimo disperato sforzo per afferrare una realtà sfuggente, passa dall'adattamento di un testo dell'ubriacone Raymond Carver. Dal Blockbuster a Broadway, sulla bizzarra via di un'ignoranza ignorata.
Il teatro, quindi, come teatro di posa di un organismo identitario interrotto, in pieno conflitto (con sé e con gli altri sé): mentre la mdp, con movimenti fluidi e organici, esplora e registra spazi, pareti, cunicoli, vie di fughe (sulla realtà e sull'irrealtà), ne indaga e inscena gli spostamenti progressivi della psiche.
Giocando con un pirandelliano gioco di attori (e di ruolo) - ripreso con rigore dal grande Emmanuel Lubezki e musicato da umori, rumori di fondo e una batteria (di Antonio Sánchez) maledettamente viva (altra folgorante intuizione), pulsante e presente (anche in scena) - Alejandro González Iñárritu oltrepassa la mera rappresentazione metacinematografica/metateatrale per riflettere sul linguaggio, sui media, sui tempi, sulle crisi, sui fenomeni, sulle responsabilità (individuali e non). Sotto la lente (tras)lucida di una scrittura esemplare, creativa - in grado di operare in maniera arguta e sempre convincente su più registri -, finiscono così le ossessioni per le celebrities (tanto più "fuori" sono meglio è), le critiche pregiudiziali e dominatrici, l'impero dei social («non sei nemmeno su facebook!» apostrofa la figlia a Riggan), le manipolazioni degli addetti ai lavori (organi di "informazione" in primis), le distorsioni dello star system.
Un film di regia, che usa virtuose tecniche registiche - e le immagini, i dialoghi, le voci ("vere" e dentro la testa), gli effetti speciali, i corpi e gli ambienti - per comunicare e dialogare. Con lo spettatore; e con i propri attori. Strepitosi tutti: dal ritrovato Edward Norton (in ottima forma) alle "sorprese" Emma Stone e Zach Galifianakis (dategli un ruolo drammatico, e vi divorerà in un istante), fino alle preziose presenze Naomi Watts (sempre una meraviglia di attrice e di donna), Andrea Riseborough, Lindsay Duncan.
Impossibile tacere, poi, di Michael Keaton, un altro rinato: la sua intepretazione è mostruosa per intensità e disarmante per sincerità. Il suo Birdman starà ancorà lì, volando tra cieli di stelle (de)cadute e libertà riconquistate.
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