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La gabbia dorata

Regia di Diego Quemada-Diez vedi scheda film

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La recensione su La gabbia dorata

di Kurtisonic
6 stelle

Dalla rassegna Un certaine regard, un film messicano on the road, sul viaggio di tre ragazzi dal Guatemala al paradiso stelle a strisce. Utilizzando obsoleti treni merci lentissimi vagano come poeti della beat generation non all’inseguimento della sublimazione poetica, ma mischiati a tanti disperati in fuga dalla miseria verso la moderna apocalisse. L’esordiente regista Quemada Diez si esprime con i codici classici del cinema di denuncia civile, nonostante la buona prova dei giovanissimi attori rinuncia al dettaglio neorealista dei soggetti per comprendere  un ambiente scenico che deve circoscrivere sempre l’azione e la deve contenere. Lo schermo è lungamente attraversato dalla presenza di binari che se indicano l’agognata direzione di fuga, ne delineano anche l’implacabile destino. Il mascheramento della propria identità femminile da parte della ragazza che fa parte del piccolo gruppo, i rapporti spigolosi fra adolescenti, lo sfondo ambientale  informe, trasmettono tutta  l’angoscia e l’impotenza di un mondo in preda al disfacimento, che si regge solo su piccoli gesti di solidarietà, di coraggio e di amore che solo l’innocenza deturpata dei protagonisti può ancora offrire. Il viaggio verso l’eden inizia con un duro confronto con il mondo arcaico dal quale i ragazzi hanno avuto origine: si aggiunge al gruppetto un coetaneo indio con la sua lingua sconosciuta e incompresa da tutti  (e tale rimane nel film, non doppiata ) e la sua presenza misteriosa  si rivela l’unica che ha ancora la capacità di sognare, di immaginare, ma è sicuramente quello che non sa interpretare la nuova realtà. Se da una parte resta forte l’impatto della denuncia delineata da un buon lavoro di fotografia che però ricalca meccanismi e interazioni che possiamo benissimo immaginare quando si parla di migranti con il suo corollario disumano composto da sfruttatori, polizia corrotta, guerra fra poveri, il racconto perde un poco per volta quell’atmosfera quasi mistica garantita dalla presenza del giovane indio Chauk. La sua figura potrebbe rappresentare una vera  novità nel genere, per stare dentro il presente è un potenziale  Kaspar Hauser attualizzato in centro America, essendo un vero outsider nello scenario sociale in ebollizione. Mentre gli altri ragazzi aspirano ad una migliore condizione di vita che però sottende a posizioni sociali e valori materiali diversificati, che comprendono la loro stessa condizione, Chauk è portatore di una cultura e di valori antichissimi e profondamente radicati vicini alla natura e alla sua percezione  panteistica, lui sogna la neve che non ha mai visto, esprime desideri raggiungibili, ha dentro di sé una forte carica spirituale ed emotiva che viene però confinata per l’economia del racconto. Queste caratteristiche avrebbero potuto essere sfruttate in pieno per dare un taglio e una lettura alla drammatica vicenda che invece si limita ad ottenere un compiacimento doloroso ma estremamente calcolato nel giudizio dello spettatore portato più alla commiserazione che a ridefinire il proprio punto di vista.   

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