Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Lav Diaz osserva. Non racconta, lascia che la vita si dispieghi davanti ai suoi occhi, con le sue pause di attesa, i suoi prolungati silenzi, i suoi tempi morti. È solo così che una storia può risultare vera: senza enfasi, senza abbreviazioni, senza ricerca dell’effetto, dell’evoluzione, del crescendo di tensione. Senza distinguere tra ciò che è importante e ciò che magari non lo è, senza calcare la mano sul filone principale del discorso. Il tono è naturalmente uniforme. È la traduzione viva della pazienza che caratterizza la contemplazione, che implica l’accettazione della realtà, del dato di fatto nella sua ostica incompiutezza. Occorre limitarsi a guardare, da lontano. Il mondo è lì per essere considerato come un teatro, il cui spettacolo non ha bisogno di scenografie, di copioni, di artifici del montaggio e di accorgimenti della ripresa. Il paesaggio è la sua cornice, l’uomo il suo interprete, giustamente esitante e come smarrito, in mezzo a quel tutto che lo sovrasta, lo ingloba, lo rende piccolo ed imbelle. L’obiettivo lo coglie nel suo cammino di sopravvivenza, che consiste, il più delle volte, nel rimanere fermo ad aspettare che le cose cambino, che la fortuna prenda a girare dalla sua parte, che ci sia, finalmente, maggiore giustizia per tutti.
Fabian Viduya, studente di giurisprudenza in crisi, vorrebbe che l’universo ritornasse alle origini, alla libertà totale che coincide con la mancanza di qualsivoglia forma di potere: una sorta di anarchia primigenia, che farebbe decadere il confine tra il bene e il male, eliminando quest’ultimo come categoria etica. La sua utopia è un’idea che, nel suo Paese, le Filippine, si scontra con una situazione sociopolitica disastrosa, caratterizzata dall’arretratezza culturale e da un forte divario economico tra la classe abbiente e il resto della popolazione. Fabian cerca la sua strada in mezzo al marciume, ma finisce per rimanervi impelagato: per combattere il degrado morale, si ritrova, per rabbia, a sporcarsi le mani di sangue. Quel giovane, figlio dell’alta borghesia, venendo a contatto con la povertà, scopre, in sé, la meschinità come un carattere congenito, che deve comunque trovare uno sfogo, e che trasforma la sua fuga dalle proprie origini in un tormentato percorso di dannazione/espiazione. Nel cinema di Lav Diaz la religiosità è la componente spirituale di una peregrinazione interamente terrena, compiuta attraverso la giungla della solitudine, del dolore, del rimorso, incontro a una salvezza che si mantiene drammaticamente nascosta. Chi la cerca, è costretto a frugare nell’ombra, vivendo l’emarginazione come il sacrificio necessario a vedere la luce. Il tormento è frutto dei propri errori, o di quelli altrui – come per Joaquin, finito in carcere da innocente – ma è ugualmente amaro, e funge da livellatore delle differenze.
È la comune miseria che abbatte tutte le barriere, restituendoci l’umanità come un insieme di individui vaganti, sperduti, disancorati da una patria che è solo matrigna. Le persone razzolano, nel vasto cortile di un crudele nonsenso, come gli animali raminghi, che invadono tutti gli spazi: i cani e le galline lungo le strade, i maiali nei giardini, le scimmie nelle celle delle prigioni. Il mistero è un aprioristico rifiuto di spiegare i motivi; è una magia nera che chiude a chiave le risposte, e che, prima ancora, sopraggiunge, come una nebbia, come il buio della notte, a soffocare le domande. La sola certezza è la sofferenza, assurda, talvolta addirittura folle, con tratti bestiali, apportatrice di umiliazione, di rancore, di distruzione, di semi malefici che si fondono con l’ignoranza e contro i quali il pensiero razionale nulla può. Fabian non crede nella funzione regolatrice della legge, e quindi abbandona i libri, ad un solo anno dalla laurea. Gli eventi gli daranno ragione: sperimenterà sulla propria pelle quanto sia difficile evitare di diventare cattivi, e di continuare ad esserlo, anche dopo essersi pentiti. Dio, se esiste, è un’entità astratta e distante, che non viene in nostro aiuto. La fede è una pacchiana superstizione, o tutt’al più una eccentrica forma di terapia psicologica. Un’isteria che inonda le città di colori natalizi e riempie le teste di fantasticherie escatologiche. La verità, intanto, annaspa al livello del suolo. Un angelo, ogni tanto, la sorvola, con superficiale curiosità. Ma forse, invece, è solo un drone sfuggito ai comandi, che riprende quello che capita, che non ha coscienza di ciò che inquadra: una baraccopoli, una landa desolata, un’autostrada che uccide. La fine della storia è questa indifferenza, che lascia tutto al caso, passato e futuro, che non commenta quel che è successo, né si preoccupa di ciò che accadrà dopo.
Norte, the End of History ha concorso, come rappresentante delle Filippine, al premio Oscar 2015 per il miglior film straniero.
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